Con "Love Mi", Fedez azzecca la scaletta e passa il testimone

Stefano Pistolini

Al Duomo si succedono i giovani artisti che raccontano l’hinterland, la voglia dei rapper spuntati ovunque nella cintura esterna milanese di rappresentarsi, esistere, mettere il proprio posto sulla mappa

Più che per sbalorditive performance, l’evento in piazza Duomo a Milano organizzato qualche giorno fa da Fedez a fini benefici, rischia di diventare una tappa significativa nell’evoluzione della musica italiana, per quanto riguarda la capacità d’attrazione di un certo suono e l’individuazione della sua provenienza. Fedez e i suoi nello stendere la scaletta delle partecipazioni – e credo anche nella scelta dei pezzi da eseguire – di fronte a una platea che sarebbe stata soprattutto televisiva e perciò nazionale (anche se i numeri della piazza si sarebbero poi rivelati lusinghieri), hanno puntato sulla precisa esposizione di un concept, nel quale, paradossalmente, la cosa che c’entrava meno era proprio il set di riappacificazione tra Fedez e J-Ax – gli amici ritrovati, però perenni titolari di un sound pop superleggero, buono come richiamo per un pubblico più stagionato (che, in piazza, non spiccava granché, nella marea teenageriale).

    

Per il resto però c’era questa idea sottesa al “Love Mi” che somiglia a una piattaforma su cui ragionare: uno dopo l’altro si sono dati il cambio sul palco i giovani artisti che sono il proseguimento di ciò che Fedez – un veterano coi suoi 32 anni – ha incarnato agli inizi, ovvero la rivincita dell’hinterland, la spinta dei rapper spuntati ovunque nella cintura esterna milanese, nei quartieri-dormitorio, nei nuovi centri multietnici, nelle realtà lontane anni-luce dal glam sanbabilino, con la voglia di rappresentarsi, esistere, mettere il proprio posto sulla mappa.

 

   

Non a caso il suono della serata ha fatto poche concessioni ai momenti introspettivi o alle pause sentimentali, dando pieno spazio al formato di rivendicazione che oggi abita questo suono, a sua volta modificandosi velocemente, rispetto alle premesse di poco tempo addietro: impallidita la triade dei desideri, “soldi successo pupe”, liquidata la questione della pistola fumante pronta a ogni occasione, a prendere il sopravvento sono testi di consapevolezza e ritmi di un’energia contagiosa. Se Ghali, Dargen D’Amico e Tananai sono i fratelli maggiori di questa scena, già placati dai riconoscimenti e dall’accumulo dell’esperienza, i veri protagonisti identitari della serata, quelli significativi per i ragazzi arrivati con le metropolitane suburbane, si chiamano Lazza, Rhove, Paky e Shiva, già titolari di un culto potente, sebbene ancora circoscritto da confini anagrafici e geografici, e vera cosa nuova, passo oltre, proposta con un senso – su cui, non a caso, si punta per promuovere questo nuovo design della scena milanese.

 

Se Lazza, con la sua capacità di punchliner e il suo stile zarro è destinato a raccogliere una popolarità più facile e trasversale, di Rhove e Paky da mesi si fa un gran dire nel rap italiano, perché salta all’occhio come la qualità della loro produzione si stacchi dal gruppo. Paky arriva da Rozzano (Rozzy per i locals), ha una crew chiamata Glory e un album “Salvatore”, dedicato allo zio che gli insegnava le cose, prima di morire in un incidente stradale. Scrive rime crude sulla vita nell’hinterland dove tutti i ragazzi sono arrabbiati, anzi, dove la rabbia cresce con te e dove le istituzioni non si percepiscono e lo stato non fa niente. Nel videoclip di “Rozzi” mette in mostra i posti della sua città, le piazze, le facce, perlopiù di emigrati come lui, poi raccoglie i suoi e mette in scena in modo spettacolare la pretesa d’identità.

   

  

Rhove è venuto a galla a diciannove anni, a fine 2020, con “Blanc Orange” un singolo che ha spaccato sui social. Arriva da Rho, come indica il nome e mette il suo spirito urban al servizio d’una filosofia di vita atipica: “Basta armi e droga. Sì allo sport e all’adrenalina”: se non è una rivoluzione sottoculturale questa, capace di seppellire l’edonismo isterico di Sfera Ebbasta (da Cinisello Balsamo) e di fargli vestire i panni del pacificatore nella guerra che da tempo occupa pericolosamente le strade delle periferie milanesi, tra la crew di San Siro che segue Rondodasosa e quella di Rozzano – per ora risse, bastonate, spedizioni punitive, ma prima o poi potrebbe capitare di peggio.

   

 

Rhove dice “scrivo per dare motivazioni ai ragazzi”, invoca le buone vibrazioni, si batte per la tregua e lancia l’idea di un’identità di provincia che prenda il posto di quella riduttiva di periferia. E i ragazzi lo seguono. Come si è visto sotto il Duomo. Anche se poi, per afferrare il senso di un raduno e di una proposta del genere, bisogna comprenderne le regole. Non serve lamentarsi delle backing tracks, dei mezzi playback, dei set sbrigativi e quasi lacerati. Questo è un mondo diverso che si va definendo a modo suo. E che ora sta trovando i suoi eroi – dal basso, come sempre, nei casi in cui durano e funzionano.

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