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Il foglio della moda

La grande moda va all’asta e le multinazionali applaudono

Fabiana Giacomotti

Christie’s, Finarte e le altre case di incanto moltiplicano le vendite di capi storici realizzando aggiudicazioni a cinque zeri, mentre aumentano le collezioni private. Uno sguardo nel complesso mercato che regola e guida il desiderio delle masse

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Nelle stesse ore in cui, a Parigi, Daniel Roseberry scendeva suo malgrado nella fossa di leoni da tastiera incapaci di distinguere la tassidermia da un peluche, Pierpaolo Piccioli costruiva il suo club ideale al Bridge fra ali di folla assiepata sul Ponte Alexandre III al freddo per fotografare le celebrities e le ospiti di Giorgio Armani chiedevano un selfie a Lucas Bravo, il bel Gabriel di “Emily in Paris”, nelle sale e sulla piattaforma online Christie’s e di venivano battuti all’asta due dei lotti più importanti di abiti haute couture visti negli ultimi anni: la cosiddetta “V.W.S. Collection”, dalle iniziali di una famiglia che dalla Russia rivoluzionaria emigrò dapprima a Shanghai, dove dagli anni trenta iniziò a raccogliere opere importanti opere d’arte, sculture in giada e porcellane, e quindi a Parigi, selezionando favolosi pezzi di haute couture, e una parte della collezione di Didier Ludot, la cui boutique sotto le arcate del Palais Royal è stata per decenni meta di pellegrinaggio di ricercatori, grandi collezionisti e appassionati.

 

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La seconda asta, organizzata con Artcurial, è stata un evento talmente significativo da convincere molte clienti di Valentino, Chanel o Armani ad atterrare a Parigi qualche giorno prima della sfilata di Schiaparelli che ormai inaugura la settimana per non mancare al cocktail inaugurale, organizzato con molto fasto al Rond Point des Champs Elysées. Qualche ora fa, Christie’s ha comunicato ufficialmente che la vendita dei centoquattordici capi dell’asta “From Beijing to Versailles” ha totalizzato 694.890 euro, un record sia per la percentuale di nuovi acquirenti, il 52 per cento, sia per il prezzo di aggiudicazione raggiunto da un capo in particolare, un abito di velluto ricamato a motivi Tudor dalla maison Lesage per Chanel della collezione disegnata da Karl Lagerfeld per l’inverno 1988-1989. Stimato a 4-6 mila euro, è stato venduto per 56.700 mila, acquirente segreto come per il cappotto ricamato Chanel del 1996-1997, battuto lo scorso novembre, nell’ambito della stessa vendita, con una lunga gonna rossa e aggiudicato per 277 mila euro, oltre dieci volte il prezzo di partenza, e il completo in satin blu di Saint Laurent del 1988 venduto per 151 mila euro.

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Si leggono molte cose fra i numeri e gli elenchi di un’asta, e quello che spiccava in questa, fra le dame ingioiellate e tutte in cappotto, mai vista una pelliccia autentica nonostante il freddo polare - giusto il grande collo di fourrure sintetica del mantello Gucci color panna che fa furore in questi mesi - era la singolare e foltissima presenza di conservatori museali e in particolare della Fundacion de la Moda del Cile, giovanissima istituzione di Vitacura (venne fondata nel 1999 da Jorge Yarur Bascunan, figlio dell’avvocato e impresario Jorge Yarur Banna) e della National gallery of Victoria di Melbourne, che hanno acquistato la maggior parte dei capi anni ottanta di Chanel, Yves Saint Laurent e Valentino presentati.

 

È voce di questi mesi, non confermata, che Bruce Hoeksema, attuale compagno di Valentino Garavani, ex modello e designer, stia frequentando in gran segreto e talvolta dietro prestanome le aste mondiali più importanti, al fine di raccogliere quanti più capi del maestro non siano ancora in suo possesso (esiste un archivio Valentino personale, non solo l’imponente raccolta di Palazzo Mignanelli), per scopi ancora imprecisati, forse un museo o una Fondazione come quella, vagheggiata dal mondo intero della moda, di Pierre Bergé e Yves Saint Laurent, che dall’avenue Marceau, e dal museo di Marrakech, custodisce la memoria della coppia e delle loro collezioni e gusti spettacolari.

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Musei della moda esistono da oltre un secolo, il collezionismo di abiti si può far risalire al XVI secolo, ma negli ultimi dieci anni la moda, e la storia dei suoi artefici, sono diventati argomento di attrazione popolare, e dunque centro di interesse anche per musei di paesi non di prima fila nella produzione e diffusione di couture. Le collezioni di abiti sono diventate paragonabili a quelle di opere d’arte, fosse solo per lo spazio e i criteri di conservazione costosissimi in cura e logistica che richiedono (no, non basta un grosso armadio, guai alla plastica, disinfestazione e arieggiamento costanti necessari per evitare quell’orribile e perfino odorosissimo decadimento che si respira talvolta nei negozi di vintage di secondo livello), ma è ancora più significativo che questo processo avvenga negli anni della massificazione del messaggio vestimentario e delle sue insegne, vedi l’ultima “collab” fra Nike e Tiffany (si esaurisce in una sneaker col calzascarpe d’argento, ma vuoi mettere la potenza attrattiva della scatola e la dicitura “limited edition”).

 

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Più la massa insegue queste operazioncine di marketing e i rivenditori online di sneaker e affini si scatenano nell’acquisto-e-rivendita-rincarata degli stessi, più i conoscitori, ma anche una quota rilevante di giovanissimi, appassionati o desiderosi di diventarlo, setacciano mercati e negozi di vintage, in attesa di poter approcciare, un giorno, magari, le aste. Un fenomeno, peraltro, favorito dalle stesse maison e le multinazionali (un caso per tutti, l’archivio Dior trasformato in museo in seno alla grande ristrutturazione e risignificazione dell’edificio al 30 di avenue Montaigne e meta di un costante flusso di visitatori), in “desperate need” di dare valore a progetti e prodotti destinati a un pubblico mondiale. Entrare nell’immaginario popolare come produttori e artigiani di capi e accessori di qualità museale è parte di una strategia calibratissima, e perseguita anche attraverso il riacquisto progressivo dei capi, e dei gioielli, venduti dieci, venti, trenta o cento anni fa, vedi il caso Bulgari.

 

Fra i giovanissimi più ambiziosi si moltiplicano gli epigoni di Alessandro Michele, che qualcuno ricorda ancora ragazzino con le buste di plastica cariche di vestiti scovati nei mercati delle pulci da esaminare, studiare, scomporre, e anche gli imitatori fosse pure solo virtuali di Massimo Cantini Parrini, costumista à la page, più volte finalista premio Oscar e attualmente impegnato nelle riprese nel serial tratto dal romanzo di Antonio Scurati, “M”, che possiede forse la più importante collezione privata nazionale di abiti dal Seicento a oggi, iniziata, dichiara, adolescente, con un abito da sposa anni cinquanta acquistato accumulando i soldi della paghetta (“mi parve un tesoro”), e ora corteggiata da una lunga serie di musei e mostre per la straordinaria qualità e rarità.

 

Racconta Alessandro Di Lorenzo, stilista e fondatore dell’unica boutique vintage italiana che collabori con Valentino nella vendita e riacquisto da privati di capi da collezione della maison, Madame Pauline di Foro Bonaparte ed è inutile spiegare il patronimico dell’insegna, come il mercato generico del “seconda mano” si stia dividendo in modo sempre più netto fra chi cerca la griffe e l’affare, cioè il capo di stagione a prezzo ridotto, e chi invece l’investimento o la soddisfazione di una passione. Sarebbe certamente difficile stabilire il ROI di un capo vintage; certo è, come scriviamo in queste pagine e come conferma anche Di Lorenzo, che vi sono griffe più facili da rivendere o da mettere all’asta nel caso la collezione diventi troppo ingombrante o ci si trovi nella necessità di “realizzare”, e collezioni entrate nella storia del costume e della moda, che ne hanno ispirate centinaia di altre o che fissano nel tempo momenti importanti della storia mondiale, vedi per esempio la celeberrima collezione “Cash&Carry” di Elsa Schiaparelli, l’ultima prima dell’occupazione nazista, pensata per donne in fuga, qualunque “pli Watteau” di Cristobal Balenciaga, la giacca Bar originale di Christian Dior, la collezione estate 1971 di Yves Saint Laurent, “le grand scandale” come titolarono i giornali dell’epoca o, più recentemente, il patrimonio creativo di Walter Albini, di Ossie Clark ora protagonista di una mostra alla Fondazione Sozzani, i capi Romeo Gigli degli anni ottanta, le camicie di Gianfranco Ferré di qualunque epoca, gli abiti di cristalli creati da Giorgio Armani per la Privé, la collezione Warhol di Gianni Versace e si potrebbe continuare.

 

Non all’infinito, comunque. Come qualunque altro artista, i maestri della moda sono e restano un numero limitato, amato e di costante ispirazione, come spiega anche Katia Giannini che dal 1995, data dell’apertura della prima delle sue due linee, l’eponima e la collezione Privé recycled Collection, una capsule di cappotti in lana cardata e riciclata che producono solo 0,50 chilogrammi di Co2 nella manifattura contro i 9 chili di un cappotto standard, molto ricercata da chi si intende davvero di sostenibilità, guarda alla lezione di Gigli, alle sue forme al tempo stesso avvolgenti e costruite. E ammette con gioia di aver fatto per anni ricerca negli Archivi Mazzini, dalle parti di Ravenna, uno dei grandi punti di raccordo delle intelligenze della moda nazionale Dagli stessi anni, questa imprenditrice bolognese, uffici e archivio al Centergross, conserva anche il cartamodello e il prototipo di ogni capo realizzato, nell’obiettivo di sviluppare un centro di ricerca e consulenza anche per giovanissimi.

 

Lo stesso valore sostenibile del vintage, del riciclo e del riacquisto è parte di una sensibilità giovane, come conferma Sofia Bertolli Balestra, direttrice creativa delle collezioni Balestra, convinta che l’innovazione equivalga alla “narrazione di storie nuove e sorprendenti”, e a cui non a caso la madre Fabiana e la zia Federica hanno affidato il turn around creativo della storia di moda di famiglia. Al telefono racconta di quanto la stupisca sempre positivamente l’interesse che i ventenni (lei ne ha poco più di trenta) mostrano per la costruzione dei capi, quando qualcuno sia così premuroso da spiegargliela, naturalmente, e di come tutto sommato sia facile, anche per uno stilista, capire se e quale dei capi di una collezione entrerà a far parte di collezioni importanti, magari di mostre o di libri di storia della moda. È una questione di proporzioni, di ispirazione, e anche di capacità di intercettare non tanto e non solo lo spirito del momento, ma quello che sarà l’eterno contemporaneo.

 

E per saperlo, per capirlo, nutrire un’autentica passione per la moda è fondamentale. Spiegano i titolari di archivi privati importanti come per molti ragazzi che approcciano la moda dalle accademie, usciti dal liceo, la scoperta della differenza fra un taffettà e un faille, ai tempi delle loro nonne conoscenza comune, abbia acquisito il valore della scoperta. Abituati fin dall’infanzia alle tutone, ai jersey iper-sintetici, alle sneaker, ai tessuti senza peso, senza costrutto e senza valore del fast fashion, scoprono con un entusiasmo da scienziati la costruzione di una spalla, il taglio sbieco “à la Madeleine Vionnet” poi ripreso da John Galliano fra i tanti e i più abili, i bustini di Alexander McQueen e Vivienne Westwood, la sottile arte della destrutturazione di Giorgio Armani.

 

Ne verificano la differenza indossandoli. E immediatamente desiderano possedere quella differenza. Il conto dei trent’anni e più di mancata cultura del tessuto e della moda si sta pagando adesso, in termini di sovrapproduzione, alle origini del problema della in-sostenibilità della sistema, e di incapacità di scelta e percezione da parte di chi la moda acquista e ha appreso a farlo solo attraverso il logo. Per le multinazionali, il problema è trovare un giusto equilibrio fra il reale valore di un capo e di un accessorio e il valore che il cliente è disposto a riconoscergli, cioè il suo prezzo. Ma il raggiungimento di questo punto zero non sempre implica una maggiore cultura di prodotto. Questo, al di là delle mostre e delle iniziative di promozione del cosiddetto “heritage”, spetta in via quasi esclusiva a chi compra moda.

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