Milano fashion week, sfilata di Bottega Veneta, collezione autunno inverno 2020-2021 (Lapresse)

Il Foglio della Moda

"Guardate al successo non alla successione", dice Barbara Beltrame

Fabiana Giacomotti

Uno slogan rivoluzionario in un paese in cui il 70 per cento delle imprese è a conduzione familiare e, parafrasando il compianto Luigi Barzini, la fabbrica è una questione di orgoglio. Perché bisogna "insegnare alle aziende italiane a predisporre per il futuro"

 

Non dovremmo innamorarci degli slogan, ma quello di Barbara Beltrame Giacomello, vicepresidente di Confindustria con delega all’internazionalizzazione, è davvero eccezionale, allitterativo perfino, per cui facciamo nostro il monito “pensare al successo, non alla successione”, e passiamo subito ad approfondirlo. Quarantenne veneta, Beltrame è responsabile dell'area comunicazione e marketing di AFV Beltrame Group, grande realtà nel comparto siderurgico italiano ed europeo; se l’abbiamo cercata è perché di recente ha dato valutazioni positive in relazione alla crescita esponenziale dei risultati di Bottega Veneta in questi anni. Una veneta che esprimeva parole di plauso nei riguardi di una cessione e non intonava le solite lamentele contro “i pezzi di made in Italy che se ne vanno”, come metà dei suoi colleghi e tre quarti della stampa italiana, era un caso interessante.

Secondo Aidaf, l’associazione delle imprese familiari, il 70 per cento delle aziende italiane con un fatturato compreso fra i 20 e i 50 milioni di euro, cioè la fascia centrale delle pmi, è a matrice familiare, e di queste il 25 per cento è guidato da leader di età superiore ai 70 anni, dunque dovrà sostenere un cambio generazionale entro il prossimo quinquennio. Quando Beltrame parla di “salto concettuale da fare” crediamo che tutti, in Italia, capiscano che cosa intenda dire: la diffidenza dell’imprenditore nei confronti del management esterno, la convinzione di sapere agire meglio di ogni altro perché-l’azienda-l’ho-fatta-io-con-queste-mie-mani, la volontà di conservare la totalità del capitale a prescindere dalle qualità degli eredi perché-tutto-questo-l’ho-fatto-per-voi, che a ben guardare è espressione di egoismo e prevaricazione. «Non è facile clonare l’imprenditorialità», dice Beltrame, elencando fra gli altri difetti la difficoltà di «aprirsi a investitori esterni» ma anche lo scarso ricorso al finanziamento, cioè all’indebitamento: «È necessario diffondere la cultura della pianificazione, insegnare alle aziende italiane a predisporre il futuro».

Nella sua azienda, di cui è esponente di quinta generazione, dice che «vi si sta appunto ragionando», che è quanto dice, su altri piani, Sara Galli del calzaturificio Brunate di Lomazzo, responsabile commerciale di terza generazione di una realtà che esporta il 96 per cento della produzione. Al momento, racconta, con i due fratelli e i due cugini sta guardandosi attorno per valorizzare la digitalizzazione e l’approccio social dell’azienda. Non tutti puntano al grande gruppo mondiale come Renzo Rosso che ritrovate citato qui e là fra queste quattro pagine; molti ritengono che la continuità sia un valore superiore anche a un’iniezione di capitali così significativa da rendere la competizione internazionale un’opportunità possibile e non un patimento.

 

In CNA Federmoda, per esempio, le aziende che superano le quattro generazioni e restano risolutamente artigiane sono numerosissime, una per tutti i Busatti di Anghiari, che tesse capolavori nelle cantine di palazzo Morgalanti, oppure dello stesso presidente dell’associazione, Marco Landi, che ad Empoli produce confezioni di eccellenza dal 1948 ed è stato fra i primi a mettersi a disposizione del governo per realizzare mascherine allo scoppio della pandemia. Alla metà del Seicento, gli osservatori europei dicevano che gli italiani fossero artigiani eccellenti e industriosi, ma troppo timorosi di cedere o condividere la propria arte per diventare davvero grandi (basti vedere che cosa successe alle imprese veneziane degli specchi mentre in Francia si andava costruendo la Saint Gobain). Qualcosa del genere scriveva nel 1966 anche Luigi Barzini in quel capolavoro di saggio che è Gli italiani “La fabbrica italiana è di rado un’impresa che si propone esclusivamente di far denaro”.