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L'entusiasmo equivoco sullo smart working

Mattia Ferraresi

Il lavoro smart è davvero intelligente? Breve indagine, anche etimologica, su una parola decisiva del nostro tempo e sulla sua fuorviante traduzione

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Il Pensiero dominante di questa settimana nasce da una suggestione via Twitter, al solito arguta, del grande linguista e neuroscienziato Andrea Moro: “Interessante notare che il lavoro a distanza non venga più chiamato ‘telelavoro’ ma ‘smart working’: ‘lavoro intelligente’. L’implicazione è imbarazzante”. Poiché questa pagina ha l’ambizione, puntualmente delusa, di mettere a fuoco qualche idea fissa dietro alla superficie mobile dei fenomeni, lo spunto offre un buon punto di partenza. Non tanto e non solo per interrogarsi sull’efficacia della pratica dello smart working , che con questa epidemia si è assai rafforzata, ma per capire meglio di cosa parliamo, esattamente, quando adoperiamo questo bell’anglicismo e soprattutto quando ne proponiamo la sua traduzione più comune nel dibattito giornalistico e nella chiacchiera quotidiana: “lavoro intelligente”. È nata così una breve esplorazione socio-etimologica (?) intorno a smart, l’aggettivo onnipresente, il lemma che pretende forse più di ogni altro di qualificare il nostro tempo. Un’epoca sempre più smart, ma non necessariamente più intelligente.

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Il Pensiero dominante di questa settimana nasce da una suggestione via Twitter, al solito arguta, del grande linguista e neuroscienziato Andrea Moro: “Interessante notare che il lavoro a distanza non venga più chiamato ‘telelavoro’ ma ‘smart working’: ‘lavoro intelligente’. L’implicazione è imbarazzante”. Poiché questa pagina ha l’ambizione, puntualmente delusa, di mettere a fuoco qualche idea fissa dietro alla superficie mobile dei fenomeni, lo spunto offre un buon punto di partenza. Non tanto e non solo per interrogarsi sull’efficacia della pratica dello smart working , che con questa epidemia si è assai rafforzata, ma per capire meglio di cosa parliamo, esattamente, quando adoperiamo questo bell’anglicismo e soprattutto quando ne proponiamo la sua traduzione più comune nel dibattito giornalistico e nella chiacchiera quotidiana: “lavoro intelligente”. È nata così una breve esplorazione socio-etimologica (?) intorno a smart, l’aggettivo onnipresente, il lemma che pretende forse più di ogni altro di qualificare il nostro tempo. Un’epoca sempre più smart, ma non necessariamente più intelligente.

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Le misure emergenziali imposte dall’epidemia hanno aperto, o improvvisamente accelerato, il dibattito italiano su telelavoro e smart working, con aziende che si sono trovate a gestire per la prima volta dipendenti al lavoro al di fuori delle sedi abituali, altre che hanno approfittato della circostanza avversa per mettere in pratica disposizioni che avevano già sulla carta e altre ancora che hanno esteso e rafforzato misure ampiamente in uso. Molte, fra queste ultime, non hanno perso l’occasione per sottolineare la propria lungimiranza nell’adottare misure virtuose di flessibilità lavorativa molto prima che queste fossero dettate da un’emergenza sanitaria. Il Blog delle Stelle, estasiato dall’opportunità che la circostanza negativa dischiude, si domanda: “È forse l’inizio di un nuovo mondo più smart ed ecosostenibile?”.

 

Il vocabolario della flessibilità lavorativa è un groviglio di sinonimi imperfetti, definizioni simili ma non perfettamente sovrapponibili, anglicismi importati male, calchi sgradevoli all’orecchio ma sostanzialmente corretti, falsi amici (calco sgradevole di false friends) e modi molto diversi per dire quasi la stessa cosa. Concetti come flextime, telecommuting, agile working, distributed workforce e molti altri sono discussi da decenni da giuslavoristi, aziende, esperti di risorse umane, sindacalisti e legislatori alla ricerca di nuove forme nei rapporti di lavoro alla luce di variabili non trascurabili come l’innovazione tecnologica che, come si dice, accorcia le distanze, il benessere dei dipendenti, il contenimento dei costi strutturali, le esigenze di bilanciare o armonizzare gli impegni professionali e quelli della vita privata, la sostenibilità ambientale, il bisogno di attrarre talenti offrendo la possibilità di lavorare in pigiama dalla camera da letto o da dove si preferisca. Si tratta di una serie di dispositivi che in diversi mercati del lavoro assumono caratteristiche differenti, originando attriti e sinergie con le culture del lavoro pre-esistenti. Negli Stati Uniti, dove la discussione va avanti da molto tempo, si sono già attraversate varie fasi, fra queste l’entusiasmo sbrigliato circa la promessa di poter svolgere qualunque mansione lavorativa da ogni punto del paese e del globo. Poi è subentrata la fase del realismo, nella quale è stato ampiamente notato che chi fa trading finanziario tende a spostarsi fisicamente dalle parti di Wall Street e chi vuole fare innovazione tecnologica va nella Silicon Valley, gli agglomerati urbani crescono e le idee migliori vengono fuori mediamente nelle città, luoghi segnati dalla prossimità fisica (qui sotto trovate lo stralcio di un paper della Brookings Institution che sottolinea le virtù della densità). Dalle nostre parti il dibattito è più acerbo. La legge italiana ha introdotto pochi anni fa una definizione di smart working, tradotta con “lavoro agile”, che parla di “forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Non è l’unica definizione disponibile. Mariano Corso, responsabile dell’osservatorio smart working del Politecnico di Milano, ne ha una leggermente diversa: “Smart working significa ripensare il telelavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, ma anche flessibilità, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave di questo nuovo approccio”. Nel dibattito di questi giorni la complessa molteplicità di dispositivi e strumenti di cui normalmente discutono gli esperti del settore si è appiattita su due termini, telelavoro e smart working, spesso presentati – erroneamente – come sinonimi. Se il telelavoro è la trasposizione esatta del lavoro dall’ufficio in un altro luogo, solitamente la casa, lo smart working implica una differenza concettuale attorno a cui è nata una vasta letteratura di settore.

 

Una cosa su cui però molti commentatori non tecnici concordano è la traduzione: smart working è tradotto con “lavoro intelligente”, scelta linguistica che conferisce alla pratica un tratto di invincibile positività, tanto da indurre legittimamente il pensiero che il lavoro tradizionale in ufficio sia il suo opposto, cioè stupido. La resa in italiano, così efficace nel veicolare l’idea che lo smart working sia una pratica assolutamente buona e giusta, pone la questione della corretta comprensione e traduzione dell’onnipresente aggettivo smart.

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In inglese, smart ricopre una vasta gamma di significati, ed è spesso legato all’intelligenza nel senso della furbizia, dell’efficacia, dell’acume, della sagacia, ma anche della molto prosaica capacità di risolvere i problemi in modo rapido, pur senza comprenderne a fondo la natura. Si definisce street-smart chi, destreggiandosi nelle difficoltà della vita da strada, ha acquisito quella particolare furbizia che consente di sopravvivere in un ambiente pieno di incognite. Smart è il giocatore delle tre carte, ma è anche lo studente brillante che si laurea a pieni voti ad Harvard, smart è chi riesce a farla franca con uno stratagemma, ma sono anche i missili guidati dal Gps, le case ad alta connettività e ovviamente i device che abbiamo in tasca, che però non chiamiamo “telefoni intelligenti”. Le tracce di questa inclinazione pragmatica e superficiale del termine sono nell’etimologia. L’aggettivo smart deriva dell’antico inglese smeart, che significa doloroso, severo, pungente, tagliente; applicato alle capacità intellettive, denota chi dispone di una mente affilata capace di offendere e persino di “mordere”, come suggerisce l’antico tedesco schmerzen, progenitore di smart nella sua forma verbale. Nell’origine del termine emerge una curvatura concreta la cui eco è rimasta in espressioni come smart working, tutta orientata a rappresentare l’efficienza di un accordo di lavoro snello e flessibile, dunque capace di adattarsi a esigenze diverse. Smart, a rigore di dizionario, significa certamente intelligente, ma è sopratutto a un certo tipo di intelligenza pratica che il termine fa riferimento. E’ diverso da intelligenza nel senso di intus legere, leggere dentro, che appunto designa la facoltà di leggere qualcosa cogliendo gli elementi annidati in profondità, sotto la superficie dei segni esteriori. Lo smart working, come tutti i suoi parenti smart, promette di adattarsi meglio alle circostanze, di snellire, ottimizzare, semplificare, gratificare e far risparmiare. Promette, insomma, di funzionare. Il che non è poco, ma non indica quella irremovibile positività che viene evocata quando l’espressione è tradotta con “lavoro intelligente”. La scelta fra l’intelligenza e la stupidità non può essere oggetto di dibattito (nemmeno uno stupido, messo di fronte al bivio, sceglierebbe la stupidità), mentre una pratica smart, che ambisce a funzionare e non ha la pretesa di capire o esaurire, è sempre umilmente sottoposta a verifica empirica. 

 

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Pubblichiamo un breve stralcio dell’introduzione di uno studio intitolato “Where jobs are concentrating and why it matters to cities and regions”, condotto da Chad Shearer, Jennifer S. Vey e Joanne Kim, e pubblicato dalla Brookings Institution nel 2019. Nella ricerca si dimostra, fra le altre cose, la stretta correlazione fra produttività, innovazione e densità abitativa. Non è un testo adatto per promuovere la filosofia dello smart working.


Molti studi e analisi hanno dimostrato l’importante ruolo della densità nel promuovere la crescita economica, il capitale sociale e l’impegno civile, oltre che uno sviluppo di comunità più sane e sostenibili. La densità, ovviamente, non è il solo fattore che determina questi risultati. Un ampio spettro di altri fattori di mercato e policy influenza ognuno di questi aspetti. E la densità senza investimenti sul lavoro offre ben pochi benefici. Un quartiere popolato ma organizzato male può scoraggiare le interazioni sociali, rendere le passeggiate pericolose e peggiorare il traffico e l’inquinamento. Nonostante questo, una crescente mole di studi mostra che i benefici della densità abitativa sono vasti e sgnificativi. La densità accresce la prossimità fra le aziende, permettendo loro di condividere input e vendere più facilmente prodotti e servizi. Nelle aree più densamente popolate, input mediati sono più facilmente disponibili. Aziende simili hanno accesso a bacini più vasti di lavoratori spcializzati e fornitori. La prossimità aiuta anche a diminuire i costi di trasporto dei beni, cosa che produce più commercio. Una ricerca di Stuart Rosenthal e William Strange mostra che le aziende comprano di più da fornitori locali nelle aree dove i lavoratori di una certa area industriale sono più concentrati. La densità impone che aziende simili competano fra loro per offrire i migliori servizi e prodotti nel mercato locale, oppure che diversifichino la loro offerta mediante la specializzazione. Di conseguenza, la denistà conduce a mercati locali più competitivi e vari. La densità permette anche un più costante ed efficace matching fra lavoratori e aziende. Nelle aree più popolate, ci sono più opportunità di lavoro a una data distanza da un certo lavoratore, il che rende più probabile trovare nuove e più attraenti opportunità professionali. In questo modo, la densità gioca un ruolo particolarmente importante nell’assunzione e nella mobilità verticale dei meno abbienti, permettendo loro di trovare più facilmente un’occupazione e di diventare finanziariamente indipendenti rispetto ai loro pari in aree meno popolose. L’accresciuta mobilità che la densità permette aumenta anche la produttività, personale e aziendale, attraverso la migliore qualità della selezione del personale, incoraggiando la condivisione di competenze con il movimento dei lavoratori stessi fra le aziende. La densità incoraggia percò anche dipendenti e datori di lavoro a imparare gli uni dagli altri, collaborando nella creazione di nuove idee e tecnologie. Molti studi dicono che i laboratori di ricerca e sviluppo e aziende ad alto contenuto tecnologico tendono a stabilirsi nelle stesse aree, forse perché l’interazione faccia a faccia che l’innovazione richiede è favorita nelle aree più popolate. Una ricerca di Gerald Carlino spiega che, nelle aree metropolitane, il tasso di brevetti pro capite aumenta del 22 per cento per ogni aumento del 100 per cento nella densità delle opportunità professionali. Lo stesso studio dimostra che gli effetti della densità sulle attività innovative sono maggiori di quelli determinati dalla popolazione complessiva dell’area metropolitana studiata, cosa che implica che la densità conta di più della popolazione totale, almeno per quanto riguarda la creatività e le capacità di innovare.

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