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Il Foglio arte

I marmi di Canova come trote in pelliccia Neoclassico, si fa per dire: la scultura greca era policroma

Francesco Stocchi

Fake news e cancel culture: il passato non è mai stato tanto fragile quanto adesso. E anche i musei diventano fluidi

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Leggo su Sfera, rivista culturale degli anni 90, di un’antica leggenda canadese che racconta di come le acque dei Grandi Laghi erano popolate da una fauna ittica fornita di pelliccia. Negli ultimi decenni del ’900, il signor Jobe di Sault Sainte Marie, nell’Ontario, cerca di fare diventare reale la leggenda e l’immaginario popolare. Nel suo laboratorio imbalsama alcuni tipi di pesci, prevalentemente trote, per ricoprirli poi con un folto strato di pelo di coniglio. Come ultimo tocco di credibilità, diffonde un’originale tesi parascientifica secondo cui la crescita del pelo sarebbe connessa alla temperatura molto rigida delle acque dei laghi. Le creature di Jobe sembrano talmente reali da ingannare la buona fede di un ricercatore che all’inizio degli anni 70 porta un esemplare di “trota di pelliccia” al museo di Edimburgo. Ma il museo, subodorando un inganno, ne rifiuta l’acquisizione. Nel frattempo, però, la notizia dell’esistenza di queste creature lacustri ha raggiunto una tale diffusione che il museo è costretto a cedere alle pressanti richieste del pubblico e ricrea nei propri laboratori un esemplare identico per soddisfare la curiosità dei visitatori.

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Leggo su Sfera, rivista culturale degli anni 90, di un’antica leggenda canadese che racconta di come le acque dei Grandi Laghi erano popolate da una fauna ittica fornita di pelliccia. Negli ultimi decenni del ’900, il signor Jobe di Sault Sainte Marie, nell’Ontario, cerca di fare diventare reale la leggenda e l’immaginario popolare. Nel suo laboratorio imbalsama alcuni tipi di pesci, prevalentemente trote, per ricoprirli poi con un folto strato di pelo di coniglio. Come ultimo tocco di credibilità, diffonde un’originale tesi parascientifica secondo cui la crescita del pelo sarebbe connessa alla temperatura molto rigida delle acque dei laghi. Le creature di Jobe sembrano talmente reali da ingannare la buona fede di un ricercatore che all’inizio degli anni 70 porta un esemplare di “trota di pelliccia” al museo di Edimburgo. Ma il museo, subodorando un inganno, ne rifiuta l’acquisizione. Nel frattempo, però, la notizia dell’esistenza di queste creature lacustri ha raggiunto una tale diffusione che il museo è costretto a cedere alle pressanti richieste del pubblico e ricrea nei propri laboratori un esemplare identico per soddisfare la curiosità dei visitatori.

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La “trota in pelliccia” che ora si trova esposta al National Museum di Scozia è quindi un falso del falso. Le opere di Canova per carità, per quanto giustamente apprezzate per tecnica e composizione, sono un po’ come delle trote in pelliccia. La corrente neoclassica nata come reazione al tardo barocco e al Rococò, si sviluppa su un assunto errato di classicismo: ispiratasi all’arte greca, che ispirò quella romana e che fu poi ripresa da quella rinascimentale, quando nel XVIII secolo si sviluppò la corrente neoclassica, la vernice su edifici e sculture classiche era perlopiù svanita. Pertanto, le prime impressioni furono che la bellezza classica si esprimeva solo attraverso la forma e la composizione, marmoreo candore al posto di colori forti e accesi. Goethe e Canova s’infiammarono alla vista delle bianche statue e dei gessi riproducenti divinità o imperatori. I Greci pitturavano le statue, nonché i rilievi, i templi e le case. Coloravano perfino le statue in bronzo (uno dei bronzi di Riace ha ancora gli occhi dipinti), applicando occhi in smalto o pasta vitrea e avorio nonché ciglia e talvolta labbra e capezzoli in lamina di rame. Il nostro abituale concetto del bronzo patinato in modo uniforme, del marmo bianco, degli occhi privi di pupille che riteniamo “classico”, è in realtà nato nel Rinascimento e diffuso poi dal gusto neoclassico.

 

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Tutta la scultura greca, come tra l’altro quella egizia, fu policroma e questa non differiva così tanto dalla pittura. Alcuni classicisti come Jacques Ignace Hittorff notarono tracce di pittura sull’architettura classica, nelle pieghe delle carni e delle vesti delle statue e la policromia classica fu lentamente accettata. Molto lentamente perché non corrispondente al mito neoclassico di reazione all’eccentricità del Rococò. “Terribile è la mia vita e il mio destino, per colpa della mia bellezza. Oh, potessi imbruttire di colpo, come una statua da cui vengano cancellati i colori, e una parvenza brutta invece della bella assumere!” esclama nell’Elena di Euripide la bellissima moglie di Menelao re di Sparta, involontaria causa della guerra di Troia. Che immagine deprimente avrebbero di noi gli antichi osservando l’attuale stile occidentale!

 

   

 

L’antichità era bianca come il marmo. Per centinaia di anni questo fatto è stato uno dei pilastri nella storia dell’origine della cultura occidentale e rimane saldamente ancorato all’idea che abbiamo ancora oggi della nostra cultura. Vedere quindi l’Augusto di Prima Porta è un tradimento dell’immagine, un tradimento sul quale si è sviluppato il nostro immaginario classico. Per rendere un po’ di giustizia storica all’odierno avventore, l’Augusto di Prima Porta andrebbe presentato a fianco del celebre dipinto di Magritte Ceci n’est pas une pipe per definire i confini tra ciò che vediamo-crediamo e ciò che è “vero”. In tempo di fake news e di software “face changer”, potrebbe tornare utile.

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Se il caso delle sculture classiche policrome è un celebre, evidente caso di modificazione del nostro credo attraverso la ridefinizione del passato, in questo periodo di cancel culture e messa in discussione del concetto di tradizione, il passato non è mai stato tanto fragile e insicuro come adesso. Un passato scosso e riscritto, paradossalmente più instabile del futuro che per definizione è fatto di proiezioni. Grazie alle nuove frontiere della scienza e alle rivendicazioni storico-culturali, il tono e l’organizzazione del nostro futuro passano attraverso una rielaborazione del passato.

 

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Nello scorso mese abbiamo assistito a una serie di scoperte archeologiche che minano le nostre sicurezze. E’ di qualche giorno la notizia di archeologi che hanno portato alla luce in Alaska una manciata di perle di vetro veneziane che si ritiene abbiano più di 540 anni, rendendole i primi oggetti europei scoperti nel continente. Se fosse vero, significherebbe che le sfere di vetro arrivarono in Nord America decenni prima che lo facesse Cristoforo Colombo, come descritto in un articolo della rivista American Antiquity. Gli artigiani italiani spesso commerciavano con tutta l’Asia, e fu lungo la Via della Seta che le perle probabilmente si diressero verso la Cina, prima di trovare la strada nell’estremo oriente russo. Un commerciante potrebbe aver attraversato il mare di Bering fino all’attuale Alaska. Recenti scavi a Stonehenge in Inghilterra hanno rivelato “selce bruciata, ceramiche scanalate, corna di cervo e sepolture”, riferisce l’Art Newspaper, ipotizzando che i monoliti provenissero dal Galles, spostati durante la migrazione dei popoli della regione di Preseli che avrebbero portato con sé i loro monumenti come segno della loro identità ancestrale. Sarebbero stati quindi ricostruiti a Stonehenge, che rappresenterebbe una ricostruzione (copia conforme si potrebbe dire). In India, nel frattempo, gli scienziati hanno recentemente individuato quello che potrebbe essere un fossile di 550 milioni di anni tra le pitture rupestri dei Bhimbetka Rock Shelters nel Madhya Pradesh, scoperta che potrebbe offrire indizi su come bizzarri organismi primitivi si siano adattati all’albero della vita, riferisce il New York Times.

 

Tanta storia attende la sua riscoperta e questa inesorabile evoluzione della scienza viene oggi accompagnata da una nuova coscienza impegnata nel diritto delle minoranze, dedita a dar voce a chi la storia gliel’ha negata, favorendo il concetto di struttura e comunione sociale a scapito del genio individuale. Il MoMA e numerosi altri musei hanno trasformato le loro “gallerie permanenti” dedicate alla presentazione della collezione in luoghi fluidi, sostituendo a rotazione le proprie opere. Les Mademoiselles d’Avignon non sono più lì, immobili, nel loro assertivo isolamento. Lo status quo è in bilico. La lettura relativa, rispetto a quella assolutistica precedente, offre la scrittura di nuove storie di modernismi e nuovi modi con cui si possa raccontare il modernismo.

 

E’ affascinante, utile e stimolante poter riscrivere certe narrazioni, sovvertire le convenzioni (specialmente quelle date per intoccabili) attraverso la riformulazione dei pezzi del suo mosaico. Operazione delicata, che richiede un certo grado di responsabilità e che dovrebbe essere l’assunto di ogni curatore, distinguendolo dall’organizzatore di mostre. Questa riformulazione dell’eroe unico all’interno di una struttura che lo definisce, sembrerebbe un’evoluzione del pensiero straussiano se non fosse che questo pensiero/azione (messa in discussione degli obsoleti monumenti confederati o coloniali, riformulazione delle collezioni dei musei d’arte moderna e conseguentemente riassestamento dei propri punti di riferimento (si possono ancora chiamare “propri”?), ridefinizione dei termini linguistici appropriati o meno, identificazione del “who has the right to speak”, etc.), risente di un manicheismo puritano che necessita, per affermarsi, dell’identificazione del cattivo di turno, del responsabile delle ingiustizie subite e dei torti storici: l’uomo bianco occidentale. Netflix in “Bridgerton” e “Downtown Abbey” modifica la storia in chiave pol. corr. per non turbare le nuove generazioni. La decostruzione del principio di uguaglianza di Derrida potrebbe essere di sostegno a queste proteste, liberandole di un livore iconoclasta e assiomatico che rischia di invalidare i giusti principi che le animano.

 

Anche in giorni di nuovi orizzonti marziani, sembra che il nostro tempo cerchi più archeologi che astronauti, ma anche studiare le stelle aiuta darci risposte da dove veniamo. Guardare lo spazio significa guardare indietro nel tempo e scavare sotto i piedi può offrirci risposte per il futuro. Intanto non dimentichiamoci del nostro fragile presente.

 

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