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Il Figlio

Quanta strada

Giacomo Giossi

A Parigi e ritorno. Dal Monde alla scoperta del  vero padre, quello adottivo

Mancano dieci giorni a primavera, siamo nel 2008 e Parigi vive avvolta nella sua placida frenesia, movimentata da Sárközy eletto presidente della Repubblica da poco meno di un anno. Éric Fottorino è alla guida del più autorevole quotidiano del paese, il Monde. E’ il coronamento di una lunga carriera, un viaggio che ha preso avvio da Nizza, dove è nato. Ed è dalla provincia, da La Rochelle dove vive il padre che giunge improvvisa la notizia terribile che mai avrebbe voluto sentire nella sua vita: Michel, il padre, si è ucciso, si è sparato un colpo di fucile in bocca.

 

Si apre con la durezza, il dolore e la sorpresa il bellissimo libro di Éric Fottorino, Il mio vero padre (Gremese editore). Fottorino ricostruisce il rapporto speciale con un uomo che sembrava avere celato a lungo in una forma di ostentata mediocrità la propria ineluttabile diversità o forse una vera e propria alterità al mondo. Viene così esposto con delicatezza e cura un rapporto padre e figlio intenso e al tempo stesso distante: Fottorino è stato adottato e nulla ormai è più recuperabile di quel padre morto, nulla resta di comune e condiviso nel suo corpo, nella sua genetica.

 

Il mio vero padre dipinge il ritratto di una provincia francese esausta, priva di risorse e capacità d’intravedere un futuro possibile. Fottorino prende così coscienza di come molte delle cose che sembravano appartenergli nella vita siano ormai perdute. Nel 2008 deve ancora essere pubblicato l’esplosivo romanzo d’esordio di Édouard Louis che scoperchierà qualche anno dopo la retorica vecchia e marcia della Douce France rivelando la durezza e anche la fatica di un popolo abbandonato a se stesso. Fottorino si mette così in discussione, non c’è differenza - tanto più per un figlio adottivo - tra l’uomo, il figlio e il giornalista.

 

Mancano ancora sette anni alla mattanza terroristica che si diffonderà nelle strade di Parigi e più di dieci all’avvento dei gilet gialli, eppure è tutto già visibile, basta volere guardarlo in faccia.

 

Inizia così un dialogo postumo con il padre, un’indagine sulle sue intenzioni recondite, sui suoi desideri svaniti e le inevitabili ambizioni frustrate. Michel Fottorino veniva dalla Tunisia, era un uomo bello, forte. Era un uomo semplice e capace - tanto più per gli uomini della sua generazione - di inusitate tenerezze. Un uomo sportivo, un massaggiatore kinesiterapista, un uomo di provincia, si usa dire oggi senza sapere più cosa voglia dire per davvero. Michel era capace infatti di quei gesti minimi e quotidiani, di attenzioni oggi sorprendenti che non confondono mai il rispetto per il prossimo con le proprie futili ambizioni, anche quando si tratta di dover far pagare il proprio mestiere. Perché come disse a suo figlio: “Non si scherza sulla miseria delle persone”.

 

Tutto scivola via, i ricordi si tramutano, prendono nuove forme e sale nell’autore pagina dopo pagina, la paura e l’angoscia di perdere del tutto quel padre che pare sempre più distante e ignoto fino alle sue estreme e drammatiche scelte. Solo dopo un lungo percorso di avvicinamento  Éric riesce a sentirlo finalmente e in maniera assoluta come il suo unico vero padre. Questo percorso ha il movimento di una corsa a tappe, ed è proprio il più francese degli eventi sportivi a unirli nuovamente. Il Tour de France, passione comune di entrambi: il ciclismo come sfida continua a stessi e agli altri, come scambio e condivisione, una passione che si trasmette naturalmente, e in un certo senso geneticamente.

 

Molto rimarrà per sempre ignoto di questo padre, ma tra le mani di suo figlio resta un biglietto scritto da Michel Fottorino prima di uccidersi con il fucile: “Complimenti Éric, ne ha fatta di strada il bambino del Gran Parc”.
 

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