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La prima cosa bella nel finimondo è la dedizione degli insegnanti

Annalena Benini

L’immensità del problema scuola e l’impegno dei professori. Non aprirò più quella porta

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Ho deciso di non entrare più nelle stanze dei miei figli, a meno che la stanza stia andando a fuoco, a meno che dal mio ingresso in quella stanza dipenda la salvezza della loro vita. L’ho deciso in questa fase due, o fase trecento, in cui quasi tutto quello che mi serve, e di cui ho voglia, sta fuori casa: gli spaghetti alle vongole, le librerie, gli amici, la convalescenza euforica, la primavera che è già diventata estate, le peonie dal fioraio, i vestiti più leggeri che dovrei comprare ma non so se sono più capace di entrare in un negozio, e anche l’ufficio, che mi manca da morire, dopo avere passato anni a fuggirlo.

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Ho deciso di non entrare più nelle stanze dei miei figli, a meno che la stanza stia andando a fuoco, a meno che dal mio ingresso in quella stanza dipenda la salvezza della loro vita. L’ho deciso in questa fase due, o fase trecento, in cui quasi tutto quello che mi serve, e di cui ho voglia, sta fuori casa: gli spaghetti alle vongole, le librerie, gli amici, la convalescenza euforica, la primavera che è già diventata estate, le peonie dal fioraio, i vestiti più leggeri che dovrei comprare ma non so se sono più capace di entrare in un negozio, e anche l’ufficio, che mi manca da morire, dopo avere passato anni a fuggirlo.

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Le stanze dei miei figli, adesso, dopo quasi tre mesi di clausura e di presidio e di video lezioni e di tutto, perché tutta la vita si è concentrata lì dentro, sono diventate un posto molto pericoloso. Ci passo davanti velocissima e, se la porta è aperta, mi copro gli occhi, con pietà e con rimozione. Ho visto però, poiché era impossibile non vederli, piatti di pasta abbandonati, con il pomodoro incrostato, ho visto fili, centinaia di fili, attorcigliati alle gambe della scrivania o abbandonati a terra, ho visto pupazzi sventrati dal cane, letti disfatti, lattine semi vuote, yogurt aperti, libri con le copertine piegate, proiettili di fucili e reggiseni, anche se simbolici, che dondolavano dal lampadario. Per un po’ ho combattuto, giuro che ho combattuto: una volta ho usato la parola “decoro”, ma loro non la conoscevano, un’altra volta li ho minacciati di buttare tutto giù dalla finestra, ma loro non ci credevano. Poi ho alzato una bandiera bianca, non bianchissima perché in lavatrice viene tutto un po’ grigio, oppure rosa, e ho detto che ci saranno delle conseguenze, ma non so ancora quali. Del resto tutti in questi giorni scrivono che ci saranno delle conseguenze, e sarei pazza se non lo dicessi anche io: ci saranno delle conseguenze. Ci sono sempre delle conseguenze.

 

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E adesso la conseguenza più vicina, più notevole, più facilmente osservabile, è la scuola chiusa. E quindi è la riapertura della scuola, e la difficoltà di riaprirla, e l’apocalisse di non riaprirla, e la speranza che venga riaperta il prima possibile, certo il meglio possibile, ma soprattutto il prima possibile (lo dico anche per quelle stanze che vanno disinfestate, ma lo dico per la vita di tutti noi, milioni di adulti e milioni di ragazzi). A proposito di questa immensità, voglio raccontare la conseguenza più bella che ho visto. Perché anche con i piatti di pasta nelle stanze, anche con le feste di compleanno annullate, non è tutto così brutto, non è tutto così abbandonato.

 

Le professoresse, i professori, gli insegnanti di scuola media, le maestre delle elementari, le maestre d’asilo che mandano i tutorial ai genitori per i giochi da fare insieme: ce la stanno mettendo tutta. Lo facevano anche prima, ma adesso c’è qualcosa di più, c’è una fatica in più, ci sono le loro voci che escono dai computer dei miei figli, io anche con la porta chiusa sento le raccomandazioni, le preghiere, l’impegno, l’ostinazione di insegnare qualcosa e di aiutare tutti. Ci sono insegnanti sessantenni che non sapevano inviare un sms, e adesso maneggiano Google Class e lo insegnano ai colleghi, e correggono compiti online e inviano allegati, e rispondono a ogni alunno, e propongono lavori in più, cercano di creare gruppi, offrono tutto il loro tempo per il recupero delle insufficienze, si battono personalmente, rabbiosamente, gentilmente, perché tutti abbiano una connessione e perché tutti abbiano un tablet. Sto parlando della scuola pubblica, naturalmente.

 

Le insegnanti hanno, molto spesso, i figli a casa, e la casa dentro casa, con tutto quello che significa in termini di finimondo e di piatti sporchi: nella telecamera a volte hanno capelli in disordine e la scrivania piena di libri, hanno preparato degli schemi nuovi, ogni volta si sono inventate qualcosa, e mandano ulteriori correzioni di compiti a mezzanotte e mezza (non potendomi affidare al senso di responsabilità di mio figlio undicenne, ho attivato le sue notifiche anche sul mio telefono), e hanno sempre una parola gentile, hanno dato la disponibilità ad approfondire, a incontrarsi su Classroom anche il pomeriggio. I miei figli cercano di tenermi nascoste tutte queste notizie, ma per fortuna i professori mandano email molto dettagliate, perché sono i genitori a dover dare il consenso, e io ho dato il consenso a tutto.

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Non vorrei origliare, ma ogni volta mi fermo in mezzo al corridoio, e allora sento anche lo sconforto di questi insegnanti per avere strumenti limitati, e per non poter mai sapere se l’interrogato sta leggendo le risposte su internet (ma, con un po’ di allenamento, posso dire che si capisce dall’intonazione della voce e dal roteare degli occhi). Li sento anche quando dicono: per favore tenete accese le telecamere, vogliamo vedervi tutti, e state seduti diritti, e avete trovato qualche difficoltà in Geometria? La professoressa di Greco chiede messaggi audio per controllare la lettura in metrica, e risponde a tutte le ore, la professoressa di Italiano delle medie non aveva mai usato Whatsapp e adesso sembra Zuckerberg quando era giovane, la professoressa di Educazione fisica fa i video per spiegare queste nuove flessioni sugli avambracci, e chiede video per controllare la postura dei suoi alunni. Alle otto del mattino, ma anche alle undici di sera.

 

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Nel mio palazzo vive una maestra elementare, madre di tre figli che vanno alle medie, al liceo e all’università: ora che teniamo tutti le finestre aperte, la sento fare lezione ai suoi alunni di sei anni, incoraggiarli, raccontare storie, correggere i compiti insieme a loro, la sento dire: sei stato bravissimo, e anche: fammi vedere il foglio, la emme la devi fare con tre gobbe, e la sento ridere e annunciare la ricreazione, e durante la ricreazione sento che è entrata in qualche stanza come la mia, con i piatti di pasta abbandonati e i reggiseni sul lampadario, con i fili che fanno inciampare, ma lei non perde l’allegria, e dopo poco ricomincia a fare lezione, questa volta le tabelline, e ieri mattina gli alunni le hanno cantato una canzoncina.

 

Allora certo che non basta, certo che la scuola ha bisogno della presenza, del contatto, dei fogli che fanno rumore, dei libri che cadono per terra, dello stare insieme sudati in cortile. E certo che ci saranno conseguenze. Ma la prima conseguenza che ho visto è stata questa dedizione. Ingegnarsi, non perdersi d’animo, imparare in una notte a usare una piattaforma sconosciuta in cui entrano venticinque ragazzi alla volta, e a ognuno dei venticinque dare qualcosa, cioè provare a dare tutto. La seconda conseguenza è che origlierò dalla porta chiusa, d’ora in poi, perché in quelle stanze io non ci entrerò mai più.

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