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Il gusto di fare e cambiare. Milano ha bisogno di “ambasciatori” per ritrovare se stessa

Maurizio Crippa

Ottimismo, capacità, solidarietà e una visione “larger than life”. Il riformismo molto ambrosiano del Centro Studi Grande Milano

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Ad esempio Ernesto Pellegrini, che si avvia ai suoi ottant’anni con il consueto entusiasmo, non si è mai occupato di politica. Ha lavorato, lavorato, lavorato (“lavorare è ancora il mio divertimento e mi diverto lavorando”). Guida un gruppo da quasi diecimila dipendenti, sa che la crisi sarà dura anche per il suo settore, la grande ristorazione, “ma se ci sarà da soffrire quest’anno, non sarà il male peggiore”. Non si è mai dimenticato di essere nato povero (“e se adesso posso restituire a chi è stato meno fortunato sono felice di farlo”), ha fondato una onlus e un ristorante, il Ruben, che offre pasti a un prezzo più che simbolico per i poveri.

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Ad esempio Ernesto Pellegrini, che si avvia ai suoi ottant’anni con il consueto entusiasmo, non si è mai occupato di politica. Ha lavorato, lavorato, lavorato (“lavorare è ancora il mio divertimento e mi diverto lavorando”). Guida un gruppo da quasi diecimila dipendenti, sa che la crisi sarà dura anche per il suo settore, la grande ristorazione, “ma se ci sarà da soffrire quest’anno, non sarà il male peggiore”. Non si è mai dimenticato di essere nato povero (“e se adesso posso restituire a chi è stato meno fortunato sono felice di farlo”), ha fondato una onlus e un ristorante, il Ruben, che offre pasti a un prezzo più che simbolico per i poveri.

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Il Covid gli ha impedito di celebrare come programmato i 55 anni della sua azienda, e allora nei mesi del lockdown la Pellegrini ha distribuito 55 mila pasti gratuiti agli anziani in difficoltà. Se c’è un simbolo di cosa significa essere milanesi e imprenditori, fare parte di una socialità che sa tenere insieme il fare e il dare, guardando oltre il particulare, da ben prima che la parola “restituzione” diventasse di moda, è Ernesto Pellegrini. Anche Ferruccio Resta, per fare un salto di generazione di trent’anni, non si è mai occupato di politica (il suo nome circola da mesi per il futuro di Palazzo Marino, ma il calciomercato è un passatempo per tifosi e giornalisti, le persone che non hanno tempo da perdere aspettano quando inizierà il campionato vero). Preferisce l’ingegneria delle macchine e guidare il Politecnico, e ora è anche presidente della Conferenza dei rettori italiani. Preferisce occuparsi di risolvere il problema di come riaprire i corsi a migliaia di studenti che vengono dall’estero. Preferisce starci, nel futuro (“i giovani sono un motore pazzesco, ti costringono a essere giovane”). Preferisce pensare che una grande università, e un sistema universitario di eccellenza come quello lombardo, sono la cosa più importante per aiutare una città come Milano a ripartire, a essere sempre più internazionalizzata, in una interconnessione virtuosa tra ricerca, territorio, imprese.

 

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Qualche giorno fa, in un incontro che non era solo conviviale – si provava a fare girare idee e ottimismo sul futuro immediato di Milano – Ernesto Pellegrini è stato nominato “presidente onorario” del Centro Studi Grande Milano, e Ferruccio Resta “presidente degli Ambasciatori del Centro Studi Grande Milano”. Che sono, gli ambasciatori, in tutto una quindicina, persone che non soltanto hanno dato lustro internazionale alla città con il loro impegno professionale o istituzionale, ma che soprattutto condividono una certa visione – riformista, ottimista, aperta, fatta di spirito di servizio – della città e si impegnano a trasmetterlo. Neppure il Centro Studi Grande Milano, nato nel 2004, si occupa di “politica”. E’ piuttosto “un network di eccellenze” che, attraverso la sua Carta dei valori, prova a divulgare l’idea di una Milano più grande, autorevole, capace di confrontarsi con le realtà metropolitane internazionali. Offrendo contributi di ricerca e idee, ad esempio attraverso il Centro di ricerca economica per lo sviluppo e la competitività delle Imprese (Cresci) oltre che con eventi mirati.

 

Niente politica in forma diretta, sebbene tra i suoi membri e “ambasciatori” ci siano ben quattro ex sindaci, bipartisan: Carlo Tognoli e Giampiero Borghini, Gabriele Albertini e, new entry per il 2020 che sarà adeguatamente presentata in autunno, Letizia Moratti. Come preferisce definirlo Sergio Scalpelli, uno dei vicepresidenti, il Centro Studi Grande Milano è un “erede diretto di quella stagione dei grandi circoli culturali milanesi”. E’ un centro che evidentemente si riconosce in quel tipo di visione politica e della società che storicamente viene definito il riformismo ambrosiano, con la sua radice in parte socialista, in parte liberale e in parte cattolica che tuttora innerva le migliori espressioni dell’amministrazione lombarda e l’anima fattiva della città, che negli ultimi anni si è forse un po’ appannata. Ne fanno fede le personalità che vi aderiscono, ad esempio gli ex sindaci – Carlo Tognoli, un ex primo cittadino che ancora viaggia nella sua Milano in tram, si dice seriamente preoccupato per la situazione economica che potrebbe crearsi in autunno: bisogna muoversi e in fretta – e ne fanno fede altre personalità che hanno voluto dare il loro contributo, imprenditori o intellettuali. Come Rosita Missoni, sorridente colorata e ottimista sul fatto che “Milano non ha per nulla perso il suo appeal nel mondo a causa del Covid, ne ho testimonianze tutti i giorni. Cambierà il modo di proporre la moda ma non certo il nostro ruolo centrale nella moda. Quello che serve, è che ora i giovani tirino fuori lo stesso coraggio che abbiamo avuto noi, molti anni fa”. O come il critico Flavio Caroli, convinto che “la strada che unisce bellezza e praticità, il marchio estetico di Milano, non verrà smarrita: è troppo potentemente consolidata, nel ruolo dell’arte, della musica, dell’editoria, che ce la farà”. O Salvatore Carrubba, oggi presidente del Piccolo Teatro, più pensoso di fronte a un momento di “fragilità” anche per la cultura, teatri e musei in primis. Ma convinto che il Dna milanese sia “proprio in questo ruolo centrale che la cultura sa giocare nella vita cittadina”. Un evento per così dire anche “operativo”, capace di mandare segnali alle istituzioni – il direttore generale dei Vigili del fuoco della Lombardia, Dante Pellicano, ha portato testimonianza del lavoro di “messa in sicurezza” dei cittadini che è stato svolto in questi mesi, su tutti i fronti, e della necessità in questi momenti di diffondere fiducia nei cittadini nei confronti delle istituzioni.

 

Ma non si tratta soltanto di un lavoro di testimonianza di una Milano “larger than life”. E’ anche la necessità di una riflessione sul futuro. “Non ci occupiamo di politica – dice Daniela Mainini, avvocato e presidente del Centro, che anima con entusiasmo assieme a Roberto Poli – ma speriamo vivamente che le prossime elezioni del 2021 per il sindaco siano le ultime rinchiuse nel perimetro stretto di Milano. Milano è un’area molto più grande – spiega – che deve essere governata con una visione di area metropolitana”. Ora che la crisi post Covid mette alle strette, ora che non solo Beppe Sala, ma anche economisti e stakeholder dello sviluppo immobiliare riconoscono che serve un cambio di modello, riprendere in mano il tema di una “città più grande” è essenziale. Si pensi solo alla dimensione dei trasporti, alla necessità di connettere una metropoli diffusa di oltre quattro milioni di abitanti, al necessario sviluppo green che il virus non ha cancellato – anzi, nella percezione pubblica ha invece esasperato. Non è un caso che il tema della Città metropolitana sia da sempre centrale per il Centro studi.

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Vi si è più volte dedicato Giampiero Borghini, anche in modo critico rispetto agli esiti paralizzanti della legge Delrio, mentre invece “la Città metropolitana va pensata strategicamente, prima che come costruzione burocratica”. Oggi invece si tratta di una scatola in fin dei conti vuota, Sala è di diritto sindaco della Città metropolitana, ma i suoi poteri finiscono di fatto ai confini di Milano. Mentre invece, nello spirito dei “granmilanesi”, è sempre più essenziale per la città attirare forze, idee, progettualità dalla città che sta intorno. E’ un’immagine sbagliata quella che fa di Milano ormai solo una piazza finanziaria, o una sommatoria di headquarter di grandi gruppi che producono altrove, o peggio una grande vetrina per un terziario ormai globale. Tutto l’hinterland anche vicino, per non parlare della provincia, è ricco di aziende, di produzione, spesso di eccellenza che alimentano l’export. Ma spesso accade che questi imprenditori non si sentano milanesi, o che dalle istituzioni milanesi si sentano poco ascoltati. Mentre invece chi produce, chi crea lavoro, sa meglio degli altri quali siano le necessità di trasporto, di viabilità, di soluzioni abitative che riguardano da vicino il proprio tessuto sociale e produttivo. E’ da questa Milano estesa che viene oggi l’appello per un cambiamento, per uno snellimento delle pratiche. Ma è un percorso a ostacoli: basti pensare che sui mezzi pubblici la tariffa unificata è stata una conquista recente, di pochi mesi fa. Milano deve ritrovare l’energia positiva, l’ottimismo di cui l’altro giorno si è voluto offrire una testimonianza. Ma ha anche bisogno di tornare a parlare di progetti e visione.

 

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La Milano piena di vasi comunicanti, come tante rogge e navigli, tra la società civile, l’imprenditoria e la politica è stata per molti decenni – dal Dopoguerra alla fine della Prima Repubblica – una comunità plurale fatta anche di circoli culturali, di associazioni di dibattito. Ora questa tradizione si è persa un po’, circoli culturali certo ci sono, ma hanno un impatto meno evidente sulla determinazione di una agenda pubblica. Anzi, a ben guardare, stante l’evidente debolezza della politica, in questi mesi drammatici del Covid è proprio la società civile a latitare. Certo, molti hanno dato una mano con iniziative di condivisione sul modello delle “charity”. E ci sono imprese che stanno mettendo in campo strategie per rilanciare interi settori. Ma si avverte una timidezza, una difficoltà a esporsi e rischiare che invece sono state le molle decisive, nel Dopoguerra, per la rapida e portentosa rinascita di Milano. Proprio nel segno di quel riformismo pragmatico e solidale di cui Milano deve tornare a essere “ambasciatrice”.

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