Salvini all'inaugurazione del Salone del Mobile a Milano (Foto LaPresse)

Esiste davvero una Milano di destra che aspetta Salvini?

Maurizio Crippa

Indagine sul (possibile) appeal della Lega euro-sovranista. Tra storia, economia, miti

Milano mi porta fortuna, ha detto con la consueta baldanza Matteo Salvini qualche giorno fa all’Hotel Gallia, presentando la sua “Europa del buon senso”, ipotesi (per ora) di una forza politica che raccolga tutte le sigle sovraniste, da Alternative für Deutschland al Rassemblement national di Marine Le Pen, e annunciando una grande manifestazione sovranista a metà maggio in piazza Duomo. “A Salvini non lascio la poltrona”, ha replicato a stretto giro il sindaco Beppe Sala, consapevole che l’assalto della Lega alla città del riformismo ambrosiano e del “modello Milano” è una cosa seria. Salvini è partito in contropiede: “Milano è dei milanesi, non di Sala”.

 

Ma questa è una lunga partita che riguarda le amministrative del 2021, si vedrà. Prima, però, ci sono le Europee (e chissà mai anche le Politiche) e la mossa di Salvini di trasformare Milano nel centro propulsivo del suo modello sovranista ha in sé una carica politica e simbolica da ben ponderare. Partendo da una domanda di fondo: il populismo-sovranismo a trazione anti europea può davvero avere un appeal in una città come Milano – cosmopolita e persino multietnica, aperta agli scambi internazionali per Dna e per la realtà dei fatti e dell’economia, moderata e prudentemente riformista, dove le opzioni di destra non hanno mai sfondato? Insomma: Milano può portare fortuna a Salvini?

 

La domanda non può essere presa sottogamba, con la retorica della Milano naturaliter antifascista, capace di organizzare belle manifestazioni di piazza per mostrare la sua anima plurale. Basta guardare ai flussi elettorali. Tolto il capoluogo, non c’è praticamente più un comune dell’area metropolitana che sia governato dalla sinistra. Le percentuali con cui i sindaci del (centro) destra, ma sospinti dalla Lega, hanno vinto in città come Sesto San Giovanni sono spesso bulgare. Alle scorse politiche il Pd ha retto solo a ridosso dei centri storici: le periferie e quel che un tempo si chiamava hinterland, in cui i Cinque stelle non hanno mai attecchito, hanno votato Lega.

 

Anche se c’è da distinguere. Come fanno i due politologi Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, collaboratori dell’Istituto Cattaneo e del Comitato scientifico di ITANES, in un libro per il Mulino, La Lega di Salvini - Estrema destra di governo. In cui segnalano innanzitutto l’esistenza – analizzata in base ai flussi elettorali del 2016 – di due elettorati diversi, i “fedeli” e i “nuovi leghisti”, che oltre ad avere un profilo sociologico leggermente divergente (più giovani i nuovi, più lavoratori autonomi i vecchi) hanno anche priorità diverse: i fedeli sentono il tema dell’immigrazione e l’autonomia, più specifico dei militanti, i “newcomers” all’immigrazione legano subito il nodo della disoccupazione. Forza Italia? Fagocitata. Se non nei numeri, di certo in quanto nucleo di offerta politica.

 

Poi bisogna addentrarsi oltre i numeri. “Milano, città internazionale, può aspirare a trasformarsi in Budapest? È difficile da immaginare”, ragiona di primo acchito Nicola Pasini, che insegna Scienze politiche alla Statale di Milano. “E’ un città ormai troppo aperta, come modello. E poi è una città che non ha mai amato la politica, né l’infatuazione politica. La sua borghesia da sempre bada agli affari, chiede poco stato e buona amministrazione. Quanto a permettere a un Salvini di ‘prendersi’ simbolicamente Milano, direi che la sua borghesia delle professioni, la sua accademia, i suoi giornali, sono i guardiani di un politicamente corretto di sinistra che non lo permetterà”.

 

Detto questo, prosegue Pasini, “oggi Salvini mette insieme un’area di scontento che è stata quella della vecchia Lega, ma anche di Berlusconi: una compagine sociale che vuole meno centralismo, risposte più dirette ai cittadini. Ma questo non è la destra di Orbán”. Però, per dirla con un filosofo ultimamente apocalittico sulla politica come Massimo Cacciari, siamo sull’orlo di Weimar e Salvini rappresenta la concreta possibilità di una spallata. Anche se, per Pasini, è difficile cucire questo scenario attorno a una destra che a Milano non c’è.

 

Il punto infatti è che la scommessa di Salvini è più complicata. A Milano c’erano Jörg Meuthen (Adf), Olli Kyoto dei Veri finlandesi e Andres Vistisen del Partito popolare danese. Di Viktor Orbán, dell’austriaco Sebastian Kurz, della Le Pen nessun segnale. Affascinare non soltanto Milano, ma il Nord produttivo che non vede l’ora di avere la Tav con gli slogan del nazionalismo “degli altri” non è semplice. Infatti, al momento, nel suo manifesto del “buon senso” c’è poco, giusto la propaganda sull’immigrazione e la difesa Europea: argomenti su cui gli alleati sovranisti non la pensano come lui. Il problema dell’offerta di Salvini è che Milano, ma anche tutto il mondo imprenditoriale, gli chiede altro. Certo, un miglioramento delle regole della globalizzazione: ma non la sua cancellazione. La protezione dei marchi e dei prodotti del made in Italy: ma non i dazi. L’elettorato che Salvini è invece in grado di affascinare è quello attratto dall’offerta securitaria. Un elettorato in crescita, come sentiment, persino in Milano città. Insomma, se c’è una destra a Milano, più che economica-sovranista, è fascio-leghista.

  

Ma esiste davvero, nella città che ancora vive dei simboli della Resistenza tanto quanto dei simboli della Madonnina o di San Siro? La città che ha vissuto a fine marzo il trambusto per la manifestazione della galassia di CasaPound per i cento anni dei Fasci di combattimento: c’era qualche centinaio di persone, ma nessuna massa critica. Il professor Roberto Chiarini, storico contemporaneista della Statale e specialista della storia delle destre (è anche presidente del Centro studi e documentazione sul periodo storico di Salò) invita a prenderla in prospettiva: “Milano non ha mai avuto una destra forte. Ha sempre rappresentato una nicchia, un’area senza vera incidenza”, dice. C’è stato il neofascismo violent, c’è stato il fascismo per bene degli Staiti di Cuddia, di Carlo Borsani – rispettato assessore nelle giunte di Formigoni – dell’onorevole Servello che sosteneva la controinformazione dei “giovani” di Radio University negli Anni di piombo, l’Alleanza nazionale tendenza La Russa.

 

Oggi Fratelli d’Italia cerca di trovare spazio anche al Nord, ricucendo gli stessi filoni, ma siamo sempre a quote basse. Fa un passo indietro, Chiarini: “Per il maggior exploit della destra a Milano bisogna tornare al 20 per cento del liberale Malagodi, o a una vicenda milanese come la Maggioranza silenziosa, che il Msi cercò di cavalcare. Ma a guardare bene erano più che altro espressioni di un risentimento locale, antiromano, contro l’invadenza statalista del centrosinistra. Ma non sono mai stati maggioranza”. Qual è allora la destra di Milano? “Tolta quella militante e nostalgica, bisogna pensare alla Lega di Bossi, che pure era più valligiana che milanese. Ma esprimeva l’eterno animo padano, ‘cisalpino’, e anche un po’ bottegaio di Milano: l’antistatalismo, il localismo amministrativo.

 

È la stessa anima interpretata anche da Berlusconi: quando la politica va in crisi, emerge la naturale rivolta del milanese ‘che sa fare da solo’. Berlusconi non è destra, è una concezione socio-cratica: la società liberata dai vincoli statali fa prima e meglio. Ma questo ha di fatto costituzionalizzato nella Seconda Repubblica sia la Lega sia la destra, anche a Milano”. Eppure Milano ha in sé anche un’anima estremista, obiettiamo a Chiarini. O almeno la capacità di fiutare prima il malcontento da sfogare. E’ stato così negli anni Settanta, ma è stata una rivolta estremista anche Tangentopoli (la ribellione populista di Milano contro un suo modello nemmeno così malvagio), o il “vento del nord”.

 

Quanta possibilità ha Salvini di intercettare oggi un’onda di malcontento che Milano, oggettivamente, sembra tenere a bada? “Certo che ne ha”, risponde Chiarini, “basta guardare i flussi elettorali. Però la protesta ‘di destra’ milanese ha un’altra anima, che non è il sovranismo. Salvini dal suo elettorato, che è dissociato, verrà misurato non sulle alleanze in Europa, o sui migranti. Ma se porterà a casa la flat tax, e soprattutto la rivendicazione storica del suo elettorato e dell’imprenditoria: l’autonomia”. Al momento al mondo economico, che pure è disposto a scommettere su di lui, non ha molti risultati da offrire: la crescita zero, le grandi opere ancora bloccate. Milano può portare fortuna a Salvini solo se saprà tenere alto il consenso securitario, ma cambiando passo economico. E non esattamente col sovranismo.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"