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Cinque dubbi garantisti intorno ai referendum sulla giustizia

Ermes Antonucci

Domande buone, risposte sbagliate (tranne in un caso). Tutto quello che non torna nell’iniziativa di Radicali e Lega

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Più che un referendum “per una riforma vera, profonda e giusta della giustizia attesa da decenni”, come lo ha definito Matteo Salvini, quello promosso da Partito radicale e Lega sembra essere più un messaggio di incoraggiamento indirizzato alla Guardasigilli Marta Cartabia, impegnata nella scrittura dei testi di riforma del Csm, dell’ordinamento giudiziario e del processo civile e penale. I quesiti referendari promossi da radicali e leghisti (per i quali sono state raccolte le prime duecentomila firme) non sembrano infatti avere la capacità di delineare la riforma necessaria a risolvere i mali che attanagliano la giustizia italiana. In alcuni casi rischiano pure di creare problemi anziché risolverli. E ciò al di là di qualsiasi considerazione politica sull’inedita accoppiata Lega-Radicali.

Ben poco “rivoluzionario”, sempre usando le parole di Salvini, appare essere il primo quesito, intitolato “riforma del Csm”. Il quesito si pone come obiettivo quello di contrastare lo strapotere delle correnti togate all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura, superando le logiche spartitorie e consociative messe tristemente in luce dallo scandalo Palamara. Alla prova dei fatti, tuttavia, il quesito risulta a dir poco modesto. Esso infatti si limita ad abrogare l’obbligo per un magistrato di raccogliere da 25 a 50 firme per presentare la propria candidatura al Csm. Si tratta di un intervento minimale, che non incide in alcun modo sul sistema di elezione dei componenti togati del Csm, su cui le correnti esercitano la loro influenza. Come notato persino dall’ex pm Piercamillo Davigo, pensare che per raccogliere venticinque firme di presentazione occorrano le correnti è un’ingenuità. Le correnti, con il sistema elettorale attualmente in vigore, fanno sentire il loro peso nella fase successiva, cioè quando i candidati si ritrovano a dover raccogliere le migliaia di voti necessari per essere eletti. Ma il quesito referendario non interviene su questa fase (e difficilmente potrebbe, avendo natura abrogativa).

Importante, ma anch’esso non rivoluzionario, risulta essere il quesito dedicato alla “separazione delle carriere dei magistrati”. Il titolo del quesito è del tutto improprio. L’intervento infatti non comporta la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, per la quale sarebbe necessario un intervento a livello costituzionale, ma determina piuttosto una separazione delle funzioni giudicanti e requirenti, cancellando le già limitate possibilità di passare da una funzione all’altra durante la carriera. Il quesito interviene quindi solo su un piccolo aspetto del problema relativo alla contiguità tra pubblici ministeri e giudici, i quali continuerebbero comunque a essere reclutati attraverso il medesimo concorso, a rispondere al medesimo Csm e a seguire la medesima scuola di formazione. Parlare di “separazione delle carriere” quindi, per quanto faccia più presa sull’indignazione dei cittadini, è fuorviante. Il quesito, lunghissimo e complesso, rischia di non essere considerato ammissibile dalla Corte costituzionale per la sua eterogeneità.
Il quesito sull’equa valutazione dei magistrati mira, in maniera positiva, a rendere più attendibili le valutazioni di professionalità delle toghe svolte dai consigli giudiziari, riconoscendo anche alla componente laica (avvocati e professori) il diritto di partecipare alle discussioni e alle votazioni riguardanti le valutazioni professionali.

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I tre restanti quesiti referendari, invece, rischiano di creare alcuni problemi. Il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati punta a consentire al cittadino di agire direttamente contro la toga per i danni subiti dall’esercizio della giurisdizione, superando il sistema previsto attualmente che consente di agire indirettamente contro lo Stato, che poi si rivale sul magistrato. La questione è antica, così come la soluzione prospettata dai radicali: visto lo scarso numero di toghe condannate per aver provocato (con dolo o colpa grave, o in conseguenza di diniego di giustizia) danni ingiusti ai cittadini nell’esercizio dell’attività giudiziaria, si propone che sia il magistrato a essere chiamato in giudizio e a risarcire direttamente il cittadino. In realtà, anche in caso di azione diretta contro il magistrato occorrerà sempre verificare la sussistenza di condotte dolose o gravemente colpose da parte della toga. Bisogna anche ricordare che tutti gli ordinamenti europei, ad eccezione della Spagna, escludono forme di responsabilità diretta delle toghe. Resta inevaso il vero tema di fondo: intervenire affinché agli errori compiuti dai magistrati facciano seguito conseguenze effettive sul piano disciplinare e dell’avanzamento di carriera.

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Il quinto quesito mira a limitare l’abuso delle misure cautelari (carcerazione preventiva, arresti domiciliari, divieto di dimora ecc.), prevedendo la possibilità di procedere alla privazione della libertà per il rischio di “reiterazione del medesimo reato” solo per i delitti di criminalità organizzata, di eversione o per i reati commessi con uso di armi o altri mezzi di violenza personale. L’intento è nobile, soprattutto se si considera l’alto numero di cittadini incarcerati e privati della libertà prima del giudizio, e poi spesso prosciolti dalle accuse. L’intervento prospettato dal quesito referendario, tuttavia, come sottolineato dal Centro Studi Livatino, rischia di rendere le misure cautelari inapplicabili per una serie di delitti particolarmente sentiti a livello sociali (come rapina o estorsione, se poste in essere senza armi e senza mezzi di violenza personale, ma per esempio ricorrendo alla minaccia). Per questi reati l’arresto in flagranza sarebbe immediatamente seguito dalla remissione in libertà dell’arrestato, se l’unica esigenza cautelare ipotizzabile nei confronti di quest’ultimo fosse il rischio di reiterazione del reato.

Il sesto e ultimo quesito implica l’abrogazione della cosiddetta legge Severino (d. lgs. 235/2012), che disciplina i casi di incandidabilità, sospensione e decadenza dei politici dalle cariche elettive. L’obiettivo dichiarato è quello di abrogare le norme che prevedono la sospensione degli amministratori locali a seguito di condanne non definitive per gravi reati (come associazione mafiosa o reati contro la pubblica amministrazione). Queste disposizioni in passato hanno portato in diversi casi alla sospensione di amministratori locali, come presidenti di regione e sindaci di grandi città, in virtù di condanne soltanto di primo grado, poi annullate nei successivi gradi di giudizio, quando ormai il danno, dal punto di vista del funzionamento delle istituzioni democratiche, era stato compiuto. Il problema è che il quesito referendario non prevede l’abrogazione soltanto di queste norme, ma dell’intera legge, anche nella parte in cui – per esempio – prevede l’incandidabilità alle elezioni per coloro che hanno riportato condanne definitive per gravi reati. L’intervento, così, rischia di rivelarsi un boomerang.

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