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il foglio del weekend

Tempi duri per i puri e duri

Ermes Antonucci

Flop giudiziari e scivoloni pubblici. La magistratura impegnata, dal “caso Pegaso” a Eni-Shell, è in piena crisi mediatica

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Una sequenza emblematica di flop giudiziari e di scivoloni pubblici sembra aver offuscato nelle ultime settimane l’immagine del magistrato “duro e puro” di italica tradizione. Da nord a sud, da Milano a Reggio Calabria, una serie di figuracce ha travolto alcuni pm simboli della magistratura impegnata. Tre nomi su tutti: Fabio De Pasquale (procuratore aggiunto a Milano), Henry John Woodcock (sostituto procuratore a Napoli) e Nicola Gratteri (procuratore capo a Catanzaro).

  
Il caso più clamoroso – eppure quasi ignorato dagli organi di informazione – vede come protagonista il pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, celebre per il suo curriculum pieno di inchieste eclatanti spesso finite nel nulla, con decine di assoluzioni e proscioglimenti (dal “Vip-gate” al “Savoia-gate”). Stavolta nel mirino di Woodcock è finita l’università telematica Pegaso. Il sostituto procuratore ha accusato di corruzione i vertici dell’università, tra cui il presidente Danilo Iervolino e il direttore scientifico Francesco Fimmanò, alcuni consulenti, il viceprefetto Biagio Del Prete (ex capo della segreteria del Miur) e il magistrato del Consiglio di Stato Paolo Carpentieri, facendoli intercettare per più di un anno (piazzando anche cimici nelle loro auto, come nel caso di Iervolino) e poi disponendo il sequestro di una quantità ingente di e-mail e documenti. 


L’accusa di corruzione lanciata da Woodcock riguarda due vicende: da un lato, il passaggio della Pegaso da fondazione a società commerciale, avvenuto dopo un parere favorevole del Consiglio di Stato; dall’altro, l’inserimento nella legge di Bilancio del 2020 di un emendamento che avrebbe avvantaggiato la Pegaso dal punto di vista fiscale. 

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Il pm anglo-napoletano, però, sembra aver perso buona parte dell’aura mediatica che lo ha reso famoso. Il “caso Pegaso”, infatti, è scoppiato sugli organi di informazione lo scorso fine febbraio, quando il tribunale del Riesame di Napoli ha bocciato con parole durissime l’impianto accusatorio avanzato da Woodcock, disponendo il dissequestro della documentazione cartacea e informatica. “Illazioni”, “errate ricostruzioni”, “contraddizioni logiche”, inchiesta “geneticamente confusionaria”: queste alcune delle espressioni utilizzate dal collegio giudicante (presieduto da Alfonso Sabella) nel valutare l’indagine del sostituto procuratore di Napoli. 
Il provvedimento del Riesame, in effetti, stronca sotto tutti i punti di vista l’inchiesta. “Non si può fare a meno di rilevare – scrivono i giudici – come la stessa prospettazione accusatoria del pm si presenti oltremodo equivoca e non consenta di isolare correttamente né gli atti contrari ai doveri di ufficio e finalizzati ad agevolare, almeno sul piano fiscale, la Pegaso, né le dazioni o promesse illecite collegate ai primi, elementi che devono necessariamente sussistere affinché possa solo ipotizzarsi la sussistenza del delitto di corruzione indicato”.

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Secondo i giudici, anche facendo uno sforzo interpretativo, le tesi dell’accusa risultano essere del tutto infondate. Il discusso emendamento inserito nella legge di Bilancio 2020 (peraltro da due parlamentari mai indagati) risulta in realtà aver penalizzato, piuttosto che favorito, l’università Pegaso. Il pm, come se non bastasse, non è riuscito neanche a individuare le ipotetiche prebende che sarebbero state corrisposte ai pubblici ufficiali coinvolti nella vicenda. La prospettazione accusatoria appare “macroscopicamente contraddittoria”, scrivono i giudici, e “obiettivamente risulta oltremodo arduo individuare gli elementi da cui la pubblica accusa ha ipotizzato, sia pur solo in termini di astratta configurabilità, l’esistenza di atti contrari ai doveri d’ufficio finalizzati ad agevolare la Pegaso e, addirittura, di rapporti corruttivi che, si badi bene, per quanto indicato nel decreto di sequestro, avrebbero logicamente dovuto comunque coinvolgere anche i due membri del parlamento che avevano proposto l’emendamento, avente forza di legge, che la Pegaso avrebbe mirato ad ottenere”. 


A fronte di un’inchiesta che fatica in maniera così evidente a stare in piedi, il Riesame critica anche l’impiego massiccio di intercettazioni compiuto durante le indagini: “Nonostante la consistente – e particolarmente invasiva – attività investigativa svolta, ancora oggi gli stessi presupposti da cui è scaturita l’ipotesi investigativa rimangono alquanto oscuri e, almeno nella presente procedura, come si è detto, si caratterizzano per una contraddizione così evidente da travolgere la, già in sé geneticamente confusionaria, impostazione accusatoria”. In un altro passaggio ancora i giudici si spingono ad affermare che “risulta sostanzialmente impossibile comprendere il percorso logico e fattuale che il pm ha posto a base della sua impostazione accusatoria”. 


In definitiva, conclude il Riesame con severità, “appare evidente come il sequestro in questione, lungi dall’essere fondato su un vero e proprio fumus commissi delicti, trovi la sua scaturigine in ipotesi investigative frutto di palesi equivoci, di errate ricostruzioni e di contraddizioni logiche, e sembra assumere (…) quella ‘valenza meramente esplorativa’ che certamente si colloca al di fuori del sistema disegnato dal codice di rito con l’art. 253 c.p. che prevede il sequestro probatorio come mezzo di ricerca della prova e non già della stessa notizia di reato”. Raramente un’inchiesta è stata bocciata con parole così dure da un collegio giudicante. 


Non è andata meglio a un altro magistrato in vista, il pm milanese Fabio De Pasquale, autore dell’inchiesta sulla presunta corruzione più grande della storia italiana, anzi mondiale: quella da oltre un miliardo di euro relativa all’acquisizione da parte di Eni e Shell dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. Viste le premesse, per coerenza ora dovremmo parlare del flop giudiziario più grande della storia. Lo scorso 17 marzo, infatti, al termine del processo di primo grado il tribunale di Milano ha assolto tutti gli imputati, tra cui l’attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore (e attuale presidente del Milan) Paolo Scaroni, nei confronti dei quali la procura aveva chiesto condanne ad addirittura otto anni di reclusione. 


Al centro dell’inchiesta della procura milanese, nata nel 2013, vi era l’accusa rivolta a Eni e Shell di aver pagato una maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere nel 2011 la licenza Opl 245, una concessione esplorativa di idrocarburi che riguarda un’area situata in acque profonde circa 150 chilometri al largo del delta del fiume Niger. Le motivazioni della sentenza con cui i giudici milanesi hanno bocciato clamorosamente l’impianto accusatorio avanzato da De Pasquale (e dal suo collega Sergio Spadaro) devono ancora essere depositate, ma l’impressione è che fin dall’inizio le tesi della procura faticassero a stare in piedi. 

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Dietro a una tangente da oltre un miliardo di dollari uno si aspetterebbe di scoprire un giro di mazzette imponente o una serie di movimentazioni di denaro su conti correnti in paradisi fiscali. In questo caso non è avvenuto nulla di tutto ciò. La tangente gigantesca che, secondo la procura, sarebbe stata pagata da Eni e Shell ad alcuni politici e intermediari nigeriani per ottenere la licenza è in realtà la somma pagata regolarmente dai due colossi petroliferi al governo di Abuja. La cifra (un miliardo e 92 milioni di dollari) venne pagata da Eni e Shell alla luce del sole, con un versamento su un conto di garanzia del governo nigeriano presso la sede londinese della banca internazionale JP Morgan. Di questa somma, 800 milioni furono poi versati dal governo nigeriano alla società locale Malabu, alla quale originariamente era stata assegnata (e poi revocata) la licenza, per mettere fine a un contenzioso che andava avanti da oltre un decennio. Per la procura, Eni e Shell avrebbero versato la somma affinché questa finisse nelle mani di politici e faccendieri locali, con cui era stato stretto un accordo corruttivo per ottenere la licenza. Insomma, secondo la procura i due giganti petroliferi avrebbero pagato la più grande tangente della storia mondiale facendo un versamento regolare e alla luce del sole su un conto intestato al governo nigeriano. Fosse vero, più che di corruzione dovremmo parlare di idiozia lampante. 

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Il problema vero, però, è che nel corso del processo gli inquirenti non sono mai riusciti a produrre una prova dell’esistenza del presunto accordo corruttivo, tanto da ammettere in aula persino di non avere neanche le prove dei pagamenti delle tangenti che sarebbero state versate ai pubblici ufficiali. I giudici del tribunale di Milano hanno così certificato l’infondatezza dell’inchiesta, che però nel frattempo ha contribuito a produrre danni ingenti all’immagine delle due compagnie petrolifere e a bloccare l’intera operazione del giacimento petrolifero Opl 245. 


Un flop senza precedenti per De Pasquale, il pm che indaga Eni da quasi trent’anni, con inchieste spesso segnate da risvolti drammatici. Fu lui a interrogare, nel luglio 1993, durante Tangentopoli, l’allora numero uno dell’Eni Gabriele Cagliari dopo quattro mesi di carcerazione preventiva nell’ambito di un’indagine sulla compagnia petrolifera. Dopo l’interrogatorio De Pasquale manifestò l’intenzione di scarcerare Cagliari, ma poi ci ripensò. Il giorno dopo il presidente dell’Eni si tolse la vita nel carcere di San Vittore, infilandosi un sacchetto di plastica in testa. Le ispezioni del ministero della Giustizia prima, e i procedimenti penali e disciplinari poi, esclusero condotte illecite da parte di De Pasquale nei riguardi di Cagliari. Quest’ultimo però, in una delle lettere d’addio che scrisse alla moglie prima di uccidersi, utilizzò parole durissime nei confronti dell’operato della magistratura inquirente: “La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura, psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente”. “Siamo cani in un canile – aggiunse il numero uno di Eni – dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrazione che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità”.

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Insieme a Woodcock e De Pasquale, non sembra vivere un momento eccezionale neanche un altro pm particolarmente esposto sul piano mediatico e politico: Nicola Gratteri, capo della procura di Catanzaro. A gennaio è cominciato nell’aula bunker di Lamezia Terme il maxi processo basato sull’inchiesta “Rinascita Scott”, avviata da Gratteri nel 2019, che coinvolge addirittura 355 imputati. Sarà la giustizia a valutare la fondatezza delle accuse mosse dalla procura di Catanzaro, in molti casi già drasticamente ridimensionate in fase cautelare dal tribunale del Riesame e dalla Cassazione. 


Ma a offuscare l’immagine di Gratteri non è il maxi processo, quanto invece lo scivolone no-vax e complottista che lo ha travolto, rivelato nei giorni scorsi sul Foglio. Il procuratore di Catanzaro ha infatti deciso di arricchire con una prefazione un libro pieno di deliranti tesi cospirazioniste e negazioniste sul Covid, scritto dal medico Pasquale Bacco e dal magistrato della Corte d’appello di Messina Angelo Giorgianni. Nel libro (significativamente intitolato “Strage di Stato”) gli autori negano la letalità del virus, sostengono che la pandemia sia solo un’invenzione orchestrata dalle case farmaceutiche e dai poteri finanziari che governano il mondo, e mettono persino in guardia dalla pericolosità dei vaccini, definiti in un’altra occasione “acqua di fogna” da uno degli autori. Un vero e proprio delirio, che Gratteri ha però clamorosamente deciso di supportare, arricchendo il testo con una personale prefazione. 
E’ normale che un magistrato, peraltro così celebre e influente, avalli pubblicamente le peggiori teorie complottiste? Un simile comportamento non rischia di ledere l’immagine della magistratura e di alimentare le preoccupazioni di chi teme che l’attività giudiziaria in Italia sia spesso guidata da una cultura del complotto e del sospetto? 


In attesa che il Consiglio superiore della magistratura batta un colpo sulla vicenda, ciò che è certo è che lo “scivolone” negazionista e no-vax rischia di macchiare la doppia candidatura preannunciata da Gratteri per la guida di due tra i più importanti uffici giudiziari del Paese: la procura di Milano e la procura nazionale Antimafia. Insomma, tempi duri per i magistrati “duri e puri” (e non sembra essere una cattiva notizia).

 

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