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La mafia dei rimasugli

Riccardo Lo Verso

Boss e picciotti della nuova Cosa Nostra, quella del dopo Totò Riina, sono stati condannati dal giudice per le indagini preliminari. Ci ha messo 14 minuti per le leggere il verdetto che riguarda più di 50 imputati, con oltre 300 anni di carcere

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“Una mafia senza futuro”, l'aveva definita il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, due anni fa nel giorno del blitz dei carabinieri del Comando provinciale. Figuriamoci adesso che su quelle briciole di futuro piovono gli anni di carcere. Boss e picciotti della nuova Cosa Nostra, quella del dopo Totò Riina, sono stati condannati dal giudice per le indagini preliminari. Ci ha messo 14 minuti per le leggere il verdetto che riguarda più di 50 imputati, con oltre 300 anni di carcere.

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“Una mafia senza futuro”, l'aveva definita il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, due anni fa nel giorno del blitz dei carabinieri del Comando provinciale. Figuriamoci adesso che su quelle briciole di futuro piovono gli anni di carcere. Boss e picciotti della nuova Cosa Nostra, quella del dopo Totò Riina, sono stati condannati dal giudice per le indagini preliminari. Ci ha messo 14 minuti per le leggere il verdetto che riguarda più di 50 imputati, con oltre 300 anni di carcere.

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Vollero fare le cose in grande, addirittura convocando la cupola che non si riuniva dall'arresto del capo dei capi. Era il 1993. Qualcuno sussurrava da tempo che con Riina e Bernardo Provenzano ancora in vita la nuova mafia era zavorrata. “Se non muoiono non se ne vede luce”, dicevano. Solo la morte dei vecchi padrini avrebbe rappresentato quel punto e a capo necessario per ripartire.

 

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E venne il giorno, nel maggio di due anni fa, di convocare l'assise mafiosa. Scelsero una casetta di periferia per provare a risollevare le sorti un'associazione in ginocchio, fiaccata da decenni di arresti e da una risposta durissima dello stato, per buona pace dei complottisti secondo cui la mafia ha per lo più goduto di favori sulla base di indicibili accordi.

  

I carabinieri li braccavano dal primo istante in cui avevano messo il naso fuori dal carcere. Perché la nuova mafia era ed è soprattutto composta da gente stranota alle forze dell'ordine per illudersi di farla franca. Il più anziano è l'ottantenne Settimo Mineo a cui, vista l'età, concessero l'onore di presiedere la riunione.

 

Pure i nuovi boss finirono in una rete dalle maglie strettissime gettata su una città imbottita di microspie, specie se il nuovo che avanza porta un cognome che rievoca il passato.

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Il più giovane degli imputati condannati è Leandro Greco, appena trentenne. È cresciuto nel mito del nonno paterno, Michele, il “papa” di Cosa Nostra. Quando il nonno è morto in carcere, nel 2008, il nipote aveva appena 18 anni. Ne ha conservato gelosamente l'anello d'oro. Quel simbolo di potere mafioso che si tramanda di generazione in generazione divenne il segno di una sconfitta. E che dire della bottiglia di vino trovata a casa del giovane Greco con l'etichetta “Il Padrino sono io”. Roba pacchiana da folklore di second’ordine, come il bacio che indirizzò verso la folla di parenti che lo aspettavano all'uscita della caserma Carini.

 

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Si dava un gran da fare il giovane Greco, propositivo com'era. Nel frattempo un altro pezzo grosso come Francesco Colletti, capomafia di Villabate, popoloso centro alle porte di Palermo, faceva il chiacchierone in macchina, affidando i suo segreti ai nastri magnetici degli investigatori. Parlava a ruota libera in compagnia del suo factotum nell'abitacolo. Una volta arrestato, nel silenzio della cella con davanti agli l'ordinanza di custodia cautelare, si rese conto di avere parlato troppo per salvare la faccia di fronte agli altri associati. L'unica strada era il pentimento.

 

Dal dicembre 2018 a oggi carabinieri, finanzieri e poliziotti non si sono certo fermati e hanno consegnato alle cronache l'immagine di una mafia dei rimasugli. Di gente che ha bisogno di imporre il pizzo persino alle bande che organizzano i finti incidenti stradali per frodare le compagnie di assicurazione. Nella stalle maleodoranti ci sono dei disperati che si fanno spezzare gambe e braccia per incassare gli indennizzi e la mafia vuole la sua parte. Così come pretende di decidere chi deve vendere birra e panini nelle feste di borgata, quali cantanti neomelodici devono salire sul palco e via discorrendo.

 

Ed è in questo contesto che accade che l'ultimo dei pentiti, tale Alfredo Geraci, non venga ritenuto indispensabile al fine di decidere se condannare o meno gli imputati di un altro processo per mafia. Ha talmente poche cose nuove da raccontare che serve a poco sentirlo. Della mafia senza futuro magistrati e investigatori sanno (quasi) tutto.

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