PUBBLICITÁ

Verdini, la condanna e le storie di un amico

Giuliano Ferrara

Nella sconfitta politica c’è un mondo italiano che si controassicura con la logica delle manette

PUBBLICITÁ

Denis Verdini è un amico. E’ anche un compagno di strada che mi diede una mano quando ero alle prese con Di Pietro nel Mugello (1996). E’ un uomo allegro e di tempra fortissima, che ama la commedia all’italiana, ne esegue una strana traccia mimetica nella vita pubblica (osteria, famiglia, amici), e si diletta di canzonette e bagattelle con ironia. E’ uno che ama la politica, ha fatto la gavetta in Toscana, si è innamorato di Berlusconi e lo ha servito con la sua caparbia intelligenza delle cose, dei numeri, delle tattiche e delle strategie di conflitto. Il tipo è di quelli leali ma fermo nelle sue idee. Con il Nazareno, patto per la governabilità che ha permesso a Renzi tre anni fattivi a Palazzo Chigi e il varo di una riforma costituzionale poi bocciata in un referendum, ha configurato un capolavoro politico, fiorentino in ogni senso, che fu duro da liquidare per l’armata dei suoi nemici. Dopo la sconfitta la sua strada giudiziaria era segnata. Oggi verdetto definitivo, brutale e spicciativo, per bancarotta e carcere (l’accusa aveva chiesto in Cassazione di rifare il processo perché parecchie cose erano tutt’altro che chiare).

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Denis Verdini è un amico. E’ anche un compagno di strada che mi diede una mano quando ero alle prese con Di Pietro nel Mugello (1996). E’ un uomo allegro e di tempra fortissima, che ama la commedia all’italiana, ne esegue una strana traccia mimetica nella vita pubblica (osteria, famiglia, amici), e si diletta di canzonette e bagattelle con ironia. E’ uno che ama la politica, ha fatto la gavetta in Toscana, si è innamorato di Berlusconi e lo ha servito con la sua caparbia intelligenza delle cose, dei numeri, delle tattiche e delle strategie di conflitto. Il tipo è di quelli leali ma fermo nelle sue idee. Con il Nazareno, patto per la governabilità che ha permesso a Renzi tre anni fattivi a Palazzo Chigi e il varo di una riforma costituzionale poi bocciata in un referendum, ha configurato un capolavoro politico, fiorentino in ogni senso, che fu duro da liquidare per l’armata dei suoi nemici. Dopo la sconfitta la sua strada giudiziaria era segnata. Oggi verdetto definitivo, brutale e spicciativo, per bancarotta e carcere (l’accusa aveva chiesto in Cassazione di rifare il processo perché parecchie cose erano tutt’altro che chiare).

PUBBLICITÁ

  

 

A Campi Bisenzio, il Credito Cooperativo Fiorentino di cui Verdini fu amministratore per molti anni era una banca minore, ambiziosa nel suo genere, popolare, di territorio. Nei pressi della banca il mercato, dove Denis era un ospite apprezzato e alla mano, e un ristorante, messo su da questo fenomeno delle relazioni umane, specializzato in pesce e vini francesi di primo rango (L’Ostrica Blu), tutt’intorno una trama fitta di combinazioni commerciali, finanziarie, sociali, negozianti e Misericordie, imprese tessili e rete di servizi, che conferivano al Deus ex machina dell’impresa, ai suoi soci e alleati, un grande potere locale e una voce nel palazzo della politica fiorentina. Tutto in un ambito di ordinarietà amministrativa, con quelle disinvolture borderline che sono tipiche delle amministrazioni lunghe e indiscusse, ma senza quelle dinamiche truffaldine che porteranno a ben altri percorsi altre popolari e cooperative, con azioni e obbligazioni dubbie spacciate sul mercato e capaci di rovinare un certo numero di piccoli risparmiatori ignari. Intorno all’attività del vivace banchiere di provincia, che poi farà il suo corso nell’establishment politico romano e nazionale, molti balzacchiani affari e benefici, sublimi atti di generosità ad personam che non costavano e non demolivano i bilanci, lobby senza complessi e sotto gli occhi di tutti, ma zero carognaggine e niente spirito di sopraffazione da profittatori. Per dimostrare ad abundantiam che il costruttore Fusi era suo sodale nel crimine gli imputarono tra l’altro di aver ospitato il figlio Tommaso nei giorni di Ferragosto in un suo albergo in Versilia, e l’intercettazione registrata dice più o meno così. Tommaso: “Oh Riccardo, ce la trovi per favore una stanza per il 14 e il 15, ché non c’è nulla da nessuna parte?”. Il Fusi: “Ce ne ho due per l’appunto, piccine”. Tommaso: “Va benissimo, siamo in otto”.

 

PUBBLICITÁ

Il processo per la bancarotta del Credito Cooperativo nacque nel tempo della caduta di Berlusconi, di cui Verdini era considerato il braccio armato in politica. Si delineò in seguito a un’ispezione della Banca d’Italia i cui risultati tecnici sono stati alla base dell’accusa ma senza che ne emergesse altro che una svalutazione dei bilanci: non c’erano parti offese, gente che aveva perso denaro, e non c’erano indizi di malversazione e incameramento di fondi da parte degli amministratori. Nella solita partita di giro dell’amministrazione controllata, con spirito burocratico com’è di prammatica, la banca fu fatta a pezzi nei bilanci e ceduta per un euro a un altro istituto.

 

Intanto fioccavano colpi di cannone: Verdini era l’ospite di riunioni di una presunta P3, una cospirazione che mirava a influire sulla Cassazione a scudo di Berlusconi, con accuse finite nel nulla ma capaci di radicare animosità dei magistrati verso il lobbista che voleva legare loro le mani in un combattimento di giustizia e politica. Oppure, per la parte dei media, il meccanismo astruso dei finanziamenti pubblici di legge all’inserto fiorentino del Giornale subiva una torsione nel senso della truffa, e Verdini con il conte Strozzi e altri doveva essere della partita per chissà quali scopi (nel dossier Verdini è pagatore in proprio, non prende una lira, si era fatto editore un po’ alla garibaldina di un giornale della Toscana di tendenza berlusconiana). I giornalisti, anche quelli che lo hanno combattuto in quel tempo di estremismi accaniti, dicevano e talvolta scrivevano che Denis è simpatico, tosto, alla mano, privo di albagia, sicuro di sé, resistente a tutto, e era vero. Lo stile era, è l’uomo. Ha preso la condanna definitiva e l’imminenza del carcere con filosofia, come si dice, anche se un massacro di quel genere, nonostante tutto, non se lo aspettava. Quelli come lui però sanno che nella sconfitta politica c’è un mondo italiano che si accanisce e non perdona e si controassicura con la logica delle manette. Lo sanno bene e lo mettono nel conto. A un amico che gli chiedeva tempo fa perché no la latitanza aveva risposto con bella espressione e lussureggiante di noncuranza: mi fa fatica.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ