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la linea sottile

Poteri e Csm. Cosa non dicono i giornali amici dei pm sull’altra battaglia per i pieni poteri

Giuseppe Sottile

Le nomine dei magistrati e la guerra di tutti contro tutti. Domanda: la corrente dei puri e duri è scesa in campo per conquistare il potere sfuggito di mano a Palamara e alla sua Unicost?

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Sono tutti lì, intrepidi e sanguigni, a farsi la guerra, ad armare gli eserciti, a piazzare i propri uomini nelle posizioni strategiche, a fare e disfare alleanze, a sputtanare i rivali, a conquistare peso e potere non solo negli uffici dove si amministra la giustizia ma anche nei palazzi dove si governa la politica.

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Sono tutti lì, intrepidi e sanguigni, a farsi la guerra, ad armare gli eserciti, a piazzare i propri uomini nelle posizioni strategiche, a fare e disfare alleanze, a sputtanare i rivali, a conquistare peso e potere non solo negli uffici dove si amministra la giustizia ma anche nei palazzi dove si governa la politica.

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Stanno lì a definire gli organigrammi, a calibrare promozioni e avanzamenti di carriera, a contrattare gli incarichi più prestigiosi e gli stipendi più remunerativi. Sono i colleghi di Luca Palamara, il pubblico ministero che fu leader dell’Associazione nazionale dei magistrati, e che ora si ritrova nel fondo di un burrone sepolto dal fango che gli ha sparato addosso la procura di Perugia. Muore Sansone con tutti i filistei. A Palamara è toccata la stessa sorte. Stretto all’angolo da un’accusa di corruzione, l’ex presidente di Unicost, la corrente più moderata e più potente dell’Anm, ha trascinato con sé, nel vortice dello scandalo e della gogna, quasi tutti i nomi di quelli che hanno avuto a che fare con lui, che lo fiancheggiavano e lo supportavano, che si vedevano con lui al ristorante o nella hall dell’hotel, che si sentivano al telefono e decidevano insieme la spartizione di tutto ciò che le commissioni e il plenum del Consiglio superiore della magistratura avrebbero formalmente deliberato nei giorni successivi. Palamara e gli altri leader delle correnti – da Magistratura Indipendente a Magistratura Democratica – erano i triunviri di un governo invisibile che, con la banalissima scusa di garantire l’indipendenza e l’autonomia di chi deve disporre della libertà altrui, in realtà amministravano in proprio la giustizia in Italia: designavano procuratori e presidenti di tribunale, giudici di Cassazione e presidenti di corti di appello. E chi poteva mai contrastarli? Loro erano il potere. Erano il sistema. Erano intoccabili.

 

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Ma la caduta di Palamara ha rovesciato il tavolo e tutti gli equilibri che erano stati costruiti attorno a quel tavolo da Mani pulite in poi. In pratica, negli ultimi trent’anni. La devastazione ha colpito soprattutto Unità per la Costituzione, meglio conosciuta come Unicost, una corrente nella quale per anni si sono riconosciuti giudici e magistrati di idee conservatrici ma non troppo, progressiste quanto basta, senza alcuna vocazione al chiasso e all’estremismo. La classica corrente di centro, se proprio vogliamo darle una collocazione; con Magistratura Indipendente alla sua destra e Magistratura Democratica a sinistra. Ora Unicost si sta spappolando. Venuta meno la presa di Palamara, il correntone di centro sta per subire lo stesso sfaldamento toccato a Magistratura Democratica dopo la stagione sfolgorante del collateralismo con il Pci, quando il dominio delle cosiddette “toghe rosse” sembrava dettar legge in ogni palazzo di giustizia, in ogni ufficio del pubblico ministero, in ogni aula di tribunale, in ogni sezione della Corte di cassazione. E naturalmente dentro al Csm e nei sotterranei della politica: ricordate Luciano Violante, presidente della Commissione parlamentare antimafia, che faceva da spalla a quel Gian Carlo Caselli, procuratore di Palermo, che nel frattempo metteva sotto inchiesta Giulio Andreotti, per sette volte presidente del Consiglio? E ricordate Violante che interrogava, a San Macuto, Tommaso Buscetta, il pentito dei due mondi, per convincerlo a saltare l’ostacolo e ad aiutare gli zelanti inquisitori di Palermo più che mai intenzionati a riscrivere la storia d’Italia?

 

Tempi andati, tempi lontani. Quando il partito di Violante abbandona i furori giustizialisti, Magistratura Democratica si affloscia e alla sua sinistra nasce Area, composta essenzialmente dai più puri scesi puntualmente in campo per epurare quelli che, a loro avviso, avevano ceduto al fascino del potere e avevano dunque perduto smalto e immacolatezza. Dove finiranno invece i reduci di Unicost, terremotati dal ciclone che ha affondato l’ex presidente dell’Associazione magistrati? In quali mani andrà il potere che apparteneva prima a Palamara e agli uomini del suo maleodorante circolo di influenza?

  

Le guerre che si combattono in questi giorni, anche a mezzo stampa, hanno una posta in gioco molto elevata. Intanto il controllo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm. Ma non solo. Le ostilità più aggressive non vengono da Magistratura Indipendente. Cosimo Ferri, capo della corrente per parecchi anni e per due volte sottosegretario al ministero della Giustizia, non si espone più di tanto e se ne sta guardingo in attesa che passi la tempesta: il suo nome è stato già sfregiato dalle intercettazioni disposte dalla procura di Perugia. Intercettazioni devastanti, come si evince dalle ultime letture. Nel telefonino di Palamara, come si ricorderà, era stato nascosto il micidiale trojan, un apparecchietto che cattura non solo la conversazione fatta al telefono ma anche tutto ciò che la persona indagata dice o ascolta quando il suo smartphone è chiuso. Grazie a questo strumento di spionaggio – autorizzato, manco a dirlo, da Alfonso Bonafede, ministro manettaro voluto da Luigi Di Maio – la procura di Perugia intercettava ogni movimento di Palamara: seguiva i suoi incontri, registrava parole e opere, monitorava amori e rapporti umani, trascriveva nefandezze deontologiche ma anche insignificanti confidenze. Guai, comunque, a ritrovarsi in quei brogliacci. Ne hanno pagato le conseguenze Ferri e Luca Lotti, che fu un principe del potere nel governo guidato da Matteo Renzi. Ma ci hanno rimesso le penne anche e soprattutto cinque consiglieri del Csm che, avendo traccheggiato con Palamara nella giostra delle nomine, sono stati costretti alle dimissioni. Lasciando di fatto campo libero a Piercamillo Davigo e al suo esercito di puri e duri, raggruppati in una corrente di nuovo conio e battezzata con l’impegnativo nome di Autonomia e Indipendenza. Una corrente, va da sé, legata allo spirito del tempo e in particolar modo al giustizialismo di marca grillina. Non a caso, quando ci sono da sostituire i consiglieri del Csm travolti dallo scandalo Palamara, la corrente di Davigo si accaparra tre posti, uno dei quali tocca a Nino Di Matteo, il pubblico ministero dell’inchiesta sulla fantomatica trattativa fra lo Stato e i boss di Cosa nostra, il più coraggioso fra tutti i magistrati coraggiosi, il più scortato, il più osannato; quello che Beppe Grillo in persona aveva indicato come futuro ministro della Giustizia e che Bonafede voleva in un primo tempo alla guida del Dipartimento delle carceri – quarantamila uomini a disposizione e un bilancio di quasi tre miliardi – ma poi se ne pentì.

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Domanda: anche la corrente dei puri e duri è scesa in campo per conquistare il potere sfuggito di mano a Palamara e alla sua Unicost? Certo. Ma nella guerra di tutti contro tutti, Autonomia e Indipendenza ha un programma ben preciso: affermare la priorità assoluta e insindacabile dei pubblici ministeri. Al vertice siedono tre pm, tre stelle del firmamento giudiziario: Davigo, con il suo giustizialismo portato all’estremo, ora è magistrato di Cassazione ma la sua gloria nacque negli anni di Mani pulite, quando era pubblico ministero a Milano; Sebastiano Ardita è il procuratore aggiunto di Catania e Di Matteo è il pm che, negli anni del processo sulla Trattativa ha cucito sulla propria pelle l’immagine del magistrato che non accetta né mezze misure né mezze verità, che scava nelle caverne del potere, che smaschera le trame occulte, che vìola la sacralità di un palazzo come il Quirinale, che interroga Giorgio Napolitano, che incrimina per falsa testimonianza l’ex ministro Nicola Mancino. Un magistrato dell’antipolitica, verrebbe da dire. E che alla fine, pur di mantenere il suo piedistallo nel piazzale degli eroi, non esita a prendere di petto, in una trasmissione televisiva, il ministro Bonafede. Sì, proprio il ministro grillino che voleva nominarlo al Dap e dopo un giorno se ne pentì. Un attacco pesante, pesantissimo. Congegnato per spiazzare oltre al Guardasigilli anche Francesco Basentini, il capo delle carceri scelto da Bonafede nel giorno della giravolta. Un attacco declinato sul filo di un sospetto inquietante: quello di avere scarcerato, per un sottinteso ricatto della mafia, boss e picciotti che, secondo il credo dei puri e duri, avrebbero dovuto invece marcire in carcere fino all’ultimo respiro.

  

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C’era però un terzo destinatario nell’intervento che Di Matteo ha fatto nella trasmissione di Massimo Giletti per inchiodare Bonafede e Basentini. Era la magistratura di sorveglianza, quella che decide sulle istanze dei detenuti in piena libertà e nel rigoroso rispetto della legge. E che, ovviamente, non sempre è d’accordo con le tesi dell’accusa. Il giudice terzo, si sa, spesso finisce per stare sullo stomaco all’antimafia eroica e chiodata. Diciamolo: a molti pm, soprattutto a quelli che vogliono salvarci dal male, piacciono i pieni poteri. Autonomia e Indipendenza sembra essere la corrente fatta apposta per loro.

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