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La vocazione manettara del governo gialloverde e l’eredità di Pannella

Annalisa Chirico

Si preannuncia un giro di vite per affidamenti in prova, domiciliari, semilibertà. E' il Bonafede-pensiero

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Roma. Per Marco Pannella il Ferragosto era come Natale e Capodanno: si passava dietro le sbarre. Tra i carcerati, meglio se criminali. Per il terzo anno di fila, oggi faremo a meno del suo codino bianco in qualche telegiornale, delle interviste dilaganti su Radio radicale, delle nuvole fumose, al sapore di grappa, in via di Torre Argentina. Pannella non c’è più, e ci mancano, quanto ci mancano, le sue filippiche appassionate contro lo “stato in flagranza di reato” e il carcere ridotto a “discarica sociale”, gonfio di un’umanità sofferente eppure capace di “essere speranza piuttosto che avere speranza”. Spes contra spem, e così sia. Pannella non c’è più, l’ho già detto, e la foscoliana “corrispondenza d’amorosi sensi”, caro Marco, non funziona come avevi promesso; in compenso, in via Arenula è assiso sulla poltrona di ministro un sorridente avvocato civilista, di nome Alfonso Bonafede, dimaiano di ferro e teutonico fautore della “certezza della pena”, intesa come certezza di una pena soltanto, la galera.

 

In realtà, l’articolo 27 della Costituzione, le pene, le declinerebbe al plurale, ma certe sottigliezze, com’è noto, fuoriescono dall’orizzonte ideologico pentastellato. Il Guardasigilli lo ha chiarito in un colloquio con il Fatto quotidiano: le misure alternative “sono soltanto interventi deflattivi”, pannicelli caldi da rimpiazzare con ben più incisivi “provvedimenti strutturali”. Si preannuncia un giro di vite per affidamenti in prova, domiciliari, semilibertà e via discorrendo. Il Bonafede-pensiero, sia detto, è coerente con un “contratto di governo” che è un monumento al populismo penale, una forca di programma tesa al radicale U-turn in materia di depenalizzazioni, non punibilità per particolare tenuità del fatto, estinzione del reato per condotte riparatorie. Primeggia la falsa idea che la pena detentiva, attraverso la privazione totale della libertà, sia l’unica degna di questo nome. Sarà che nei circoli pentastellati le massime di Piercamillo Davigo macinano una mole di retweet, e Cesare Beccaria è un marchio di biscotti (“La certezza di un castigo, benché moderato, – scriveva il giurista milanese – farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”), fatto sta che una concezione tribale della giustizia ignora almeno due fatti: l’effetto deterrente della pena dipende non dall’entità ma dalla certezza che essa sarà effettivamente scontata; i paesi che estendono il ricorso alle misure alternative sperimentano tassi di recidiva più bassi.

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L’ossessiva invocazione di manette e massimi edittali funziona, forse, per la propaganda, ma governare è un’altra storia. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 luglio scorso i centonovanta istituti penitenziari italiani ospitano 58.506 detenuti, con un “surplus” di ottomila unità rispetto alla capienza regolamentare; il 33 percento di questi – quasi ventimila reclusi, tra appellanti e ricorrenti – vive ristretto in una cella in assenza di una condanna definitiva. 9.163 detenuti, pari a circa il 15 percento della popolazione carceraria, attendono una sentenza di primo grado. Si conferma l’anomalia di un paese dov’è più facile finire dietro le sbarre nelle more di un procedimento che non a seguito di una sentenza passata in giudicato. A sentire il ministro Bonafede, il governo costruirà nuove carceri, anzi ristrutturerà gli istituti esistenti: su costi, tempi e personale, già in perenne sotto organico, aleggia l’assoluta incertezza. I piani carceri, annunciati o anche solo ventilati, sono un comodo passpartout per ogni governo, la vera questione è che, seppure una modesta porzione del programma gialloverde diventasse realtà, le carceri tornerebbero ad affollarsi in un battibaleno. Non a caso, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha evidenziato quanto segue: “Gli stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”; al contrario, “gli stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”.

 

Certo, toccherà convincere il ministro Bonafede che la pena non è una soltanto. La radicale Rita Bernardini, ribattezzata “Santa Rita delle carceri”, si accinge a trascorrere il terzo Ferragosto senza Pannella. “Questa storia della certezza della pena, per come la interpreta il governo, mi fa un po’ sorridere – ci confida prima di recarsi in visita a Rebibbia – Basterebbe rileggere Beccaria: la pena è certa se sai che verrai beccato e punito per il reato commesso. Da decenni lo stato italiano viola sistematicamente diritti umani fondamentali senza pagare pegno. Siamo in una condizione di illegalità costituzionale”.

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