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Perché il giustizialismo grillo-leghista non significa più sicurezza

Enrico Cicchetti

Nel contratto di governo, più galera e meno misure alternative. Esattamente il contrario di ciò che le ricerche più affidabili indicano come strumenti efficaci nel contrasto alla criminalità

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Già l'annunciata riforma dell’ordinamento penitenziario, aveva suscitato le polemiche di Lega e Cinque stelle. Ora che si apprestano a governare, i due partiti vincitori dell’ultima tornata elettorale tentano una sterzata giustizialista all’ordinamento penale. Nel contratto di governo firmato da Salvini e Di Maio è prevista la costruzione di nuove carceri, una “revisione o modifica” della cosiddetta “sorveglianza dinamica”, una riforma della prescrizione, l’abbassamento dell'età (non meglio specificata) di imputabilità per i minori e ancora più galera nel caso di furti, oltre all’uso sempre legittimo delle armi per difendersi.

  

Pare evidente che uno degli obiettivi del prossimo governo sarà quello di cancellare e fermare le riforme di questi ultimi anni. Per giustificare simili provvedimenti, nel contratto si parla di certezza della pena. Ma, come scrive su Medium Carolina Antonucci, ricercatrice per Antigone – l’associazione che dal 1991 si occupa dei diritti dei detenuti – “la legalità la si rispetta, per ovvie ragioni gerarchiche, attuando prima di tutto le norme programmatiche contenute nella nostra Costituzione”, come la presunzione di innocenza, il divieto di pene che possano consistere in trattamenti inumani e degradanti e il principio della rieducazione del condannato come scopo della detenzione. Se è giusto dire che tutti devono rispettare la legge, lo stato per primo deve curarsi di attuare i mandati costituzionali.

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Cerchiamo di chiarire alcuni punti critici su questo tema, contenuti nel contratto del “governo del cambiamento”.

  

Nuove carceri o misure alternative?

Nel 2013, con la sentenza Torreggiani, la Corte europea dei Diritti umani ha condannato l’Italia per aver inflitto ai detenuti "trattamenti inumani e degradanti", soprattutto a causa del sovraffollamento delle carceri. Ma dopo i primi due anni di interventi emergenziali, i numeri sono tornati a salire. La soluzione è costruire nuove prigioni? “Storicamente non è mai stato così”, spiega Antonucci. “Nuovi spazi detentivi hanno sempre prodotto ulteriore popolazione detenuta e, parlando di efficienza e di efficacia del sistema, le misure alternative al carcere hanno un costo notevolmente inferiore e producono molta meno ‘criminalità di ritorno’ riducendo drasticamente il grandissimo problema della recidiva”. Come ha ricordato pochi giorni fa Luigi Ferrarella sul Corriere, i risultati di tre anni di studio degli economisti Giovanni Mastrobuoni (Università di Essex) e Daniele Terlizzese (dirigente di Banca d’Italia e direttore dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza), con la banca dati del ministero della Giustizia, mostrano che scontare la pena con misure alternative – che non significa assenza di pena – riduce il numero dei recidivi. "La sicurezza per i cittadini", conclude Ferrarella, "cioè la loro aspettativa di non essere vittime di reati nuovamente commessi da ex detenuti, é più assicurata se i condannati scontano la loro pena non tutta e soltanto chiusi in cella a far niente, ma parzialmente anche in misure alternative al carcere che li avviino allo studio o lavoro". Oltretutto, una ricerca condotta da "Centro nazionale per il volontariato" e "Fondazione volontariato e partecipazione" presentata alla Camera dei deputati nel 2014, ha stimato in più di 570mila euro al giorno (210 milioni all’anno) il risparmio per il nostro sistema penitenziario se si utilizzassero di più le misure alternative alla pena. Secondo il provveditore Luigi Pagano, la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponderebbe a un risparmio annuo di circa 51 milioni di euro.

  

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Fa bene Matteo Salvini a dire che "chi sbaglia paga". Ma si cerchi di non fare pagare più del necessario anche i contribuenti e si ricordi che le misure alternative sarebbero da incentivare se si ha a cuore la sicurezza dei cittadini. Stando ai numeri, questo contratto di governo la mette invece a rischio.

     

La sorveglianza dinamica

Il secondo punto critico riguarda la “sorveglianza dinamica”: si tratta di una modalità di esecuzione della pena istituita nel 2013 e destinata ai detenuti di media e bassa sicurezza per potenziare gli spazi dedicati alle attività dei reclusi e realizzare davvero lo scopo riabilitativo della pena. Secondo Stefano Anastasia, Garante dei detenuti di Lazio e Umbria, “in carcere non ci sono più di 10.000 persone che, per titolo di reato o per affiliazione criminale, possano essere qualificate pericolose”. In pratica, si parla dell’apertura delle celle – solo per queste categorie di detenuti – dalle 8 alle 14 ore al giorno, con la possibilità di muoversi all’interno della propria sezione e di avere spazi più ampi per le attività. La polizia penitenziaria effettua un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione dei detenuti. Ci devono naturalmente essere le condizioni giuste per applicarla, reali percorsi di reinserimento e opportunità di lavoro oltre che la massima sicurezza per le forze di polizia. Una circolare del Dap definisce la sorveglianza dinamica come “un sistema più efficace per assicurare l’ordine all’interno degli istituti” e lo stesso Marco Del Gaudio, vice capo del Dap, ha dichiarato al Dubbio che la polizia penitenziaria “non è affatto contraria, anzi spesso ha manifestato piena adesione alla sorveglianza dinamica”, sebbene questi “principi risultano applicati in maniera disomogenea sul territorio” nazionale. Ora, la proposta del nuovo governo qual è esattamente? Tornare a rinchiudere i detenuti in cella tutto il giorno?

La sorveglianza dinamica è stata mutuata da altri ordinamenti europei che la prevedevano da tempo, e da norme sovranazionali e internazionali. Come ricorda Federica De Simone, professoressa di Criminologia all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, in Finlandia questo regime serve a preparare i detenuti alla libertà: “La vita detentiva segue l’andamento della vita extramuraria, con regolari orari di lavoro, normali salari, obblighi di pagare il corrispettivo per il vitto e l’alloggio, oltre a eventuale mantenimento per parenti all’esterno. Anche in Germania le strutture aperte a regime attenuato sono considerate un banco di prova per verificare il grado di responsabilizzazione raggiunto dal detenuto”.

   

Minori e giovani adulti


Altro punto critico riguarda i cosiddetti “giovani adulti”, detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, che se hanno commesso alcuni reati prima della maggiore età possono scontare la pena in un carcere minorile. “A fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali”, si legge nel contratto Lega-M5s, occorre eliminare “la possibilità di trattamento minorile”. Su questo punto valgano le parole di Susanna Marietti, che sul Fatto spiega come la giustizia penale minorile italiana sia “guardata come un modello cui tendere dall’intera Europa. Tra i ragazzi in messa alla prova, per fare un esempio particolarmente rilevante, la recidiva è bassissima. Cosa vogliamo dalla nostra giustizia? Che ci difenda o che ci vendichi? Ci teniamo così tanto alla vendetta anche nei confronti di ragazzini, che potremmo recuperare alla collettività e instradare verso una vita onesta mantenendo l’approccio educativo che la giustizia minorile ha adottato con successo in Italia negli ultimi trent’anni?”.

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