L'antiDavigo
Eugenio Albamonte, presidente dell’Anm che combatte le incrostazioni mediatico-giudiziarie
C’è un prima e un dopo. Prima dell’arrivo alla presidenza dell’Anm di Eugenio Albamonte – pubblico ministero nato nel 1967 a Venezia e punto di riferimento della lotta ai crimini informatici alla Procura di Roma – e dopo l’arrivo alla presidenza dell’Anm di Eugenio Albamonte. C’è un prima, perché il predecessore di Albamonte all’Anm si chiama Piercamillo Davigo, nato nel 1950 in Lomellina, presidente della II sezione penale di Cassazione nonché volto simbolo – assieme ad Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo – del pool e dell’inchiesta Mani Pulite. E c’è un dopo: perché Albamonte e Davigo sono ideologicamente e antropologicamente opposti – tanto che anche la fisiognomica parla di due mondi, con Davigo impenetrabile nell’espressione dietro all’occhiale trasparente e Albamonte mobile nel volto da fumetto (genere Commissario Basettoni da giovane), con occhiale nero e montatura spessa. E così, nello scorso aprile, quando Albamonte è arrivato all’Anm, qualcuno l’ha detto: segno dei tempi, segno che non è più l’epoca del protagonismo giudiziario, il fatto che arrivi a capo dell’Anm un magistrato che ha passato otto anni a occuparsi di “deep web” (l’abisso della Rete dove ci si deve districare tra hacker, pagine criptate, presunti trafficanti e presunti terroristi) e che in ogni occasione pubblica, dopo l’arrivo al vertice dell’Anm, non ha fatto che sottolineare che i processi mediatici sono “mostri”, “bolle da sgonfiare”, enormi complicazioni sulla via del ristabilimento della credibilità della magistratura, in alcuni casi incrinata da anni di cosiddetto “circo mediatico-giudiziario”. E il 16 luglio, in un’intervista al Messaggero (e, a inizio mandato, in un’intervista a questo giornale), Albamonte aveva parlato a lungo del corto circuito politica-magistratura, e si era capito che le parole del nuovo presidente dell’Anm, proveniente da Area, raggruppamento delle toghe di sinistra di Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia, non ricalcavano l’impostazione-Davigo, icona di Tangentopoli nel frattempo anche considerato sogno nel cassetto per la premiership dei Cinque Stelle, ma che neppure combaciavano con l’impostazione-Emiliano, dal cognome del magistrato-politico Michele, già sindaco di Bari e governatore della Puglia, recentemente uscito dalla competizione con Matteo Renzi e Andrea Orlando per la segreteria del Pd.
Esperto di deep web
e cyberterrorismo,
si è ritrovato nel posto dell'icona di Mani Pulite (e non potrebbe essere più diverso)
Il "caso Emiliano"
visto come fatto "inedito, anomalo",
e le interviste
al Messaggero
e a Famiglia Cristiana
Quando, con occhiali spessi e basette
da fumetto, Albamonte si occupava di "fratelli Occhionero" e home page criptate.
E insomma il nome Albamonte, che ora compare addirittura nelle interviste a Famiglia Cristiana (questa settimana, con titolo non neutro: “In tv sembra tutto facile, ma il processo è un’altra cosa”), non era mai stato così in evidenza nelle cronache, eccezion fatta per i giorni in cui, nel gennaio scorso, era uscita sui giornali l’incredibile storia dei “fratelli Occhionero”, cognome da fumetto come il volto del pm (Albamonte, appunto) che si era occupato, tra gli altri, del caso: l’inchiesta che aveva portato all’arresto, a Roma, dei due fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero, sospettati di cyberspionaggio e accusati di “procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato; accesso abusivo a sistema informatico; e intercettazione illecita di comunicazioni informatiche”. In particolare, i due erano accusati di aver hackerato e rubato dati, documenti e informazioni “anche riservate” dalle caselle postali di molte decine di politici, tra cui l’ex premier Matteo Renzi e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. L’indagine aveva preso l’avvio nel marzo del 2016, quando un addetto alla sicurezza dell’Enav, Francesco Di Maio, si era insospettito per l’arrivo di una mail ricevuta dalla casella di un professionista romano con cui l’Enav non aveva mai avuto nulla a che fare. Di Maio l’aveva fatta analizzare ed era emerso uno scenario da film distopico sul futuro telematico globale: l’indirizzo Ip del computer che aveva mandato il messaggio sospetto apparteneva a “un nodo di uscita della rete di anonimazione Tor” e l’indirizzo del professionista faceva parte di una serie di indirizzi di studi professionali “agganciati” con il phishing. La mail, poi, era infetta: conteneva cioè un “malware” denominato EyePiramid, in grado di inoltrare presso un server localizzato negli Stati Uniti tutto il contenuto del dispositivo infettato. E insomma gli Occhionero erano accusati di aver fatto copie del contenuto dei telefoni e dei computer agganciati, al punto (fantascientifico) di poter sapere che cosa l’utente stesse digitando sulla tastiera. L’incredibile storia si alimentava anche di numeri: 18.327 nomi schedati, 1.793 password ottenute.
Il giudizio
su Tangentopoli
e l'idea
che la magistratura
non possa pensare
di "riscrivere la storia del paese"
Anche quella, però, a suo modo, era un’inchiesta mediatica. E, pochi mesi dopo, Albamonte doveva giudicare dall’alto non soltanto le inchieste mediatiche ma anche i loro protagonisti: “I magistrati che si comportano in modo sobrio mi piacciono. I pavoni no”, diceva a questo giornale. E, nel venticinquesimo anniversario di Tangentopoli, rifletteva sul fatto che la magistratura fosse arrivata “a quell’appuntamento in un quadro tutto da ricordare: aveva a disposizione un nuovo codice di procedura penale ed era nella pienezza dei poteri sia dal punto di vista dell’indipendenza sia dal punto di vista degli strumenti da adottare per attaccare la criminalità…l’appunto che mi sento di fare oggi è che sì, nel 1992 c’è stato un cortocircuito…la politica ha dato alla magistratura un potere enorme e la magistratura si è presa quel potere. Una parte del ceto politico anziché assumere su di sé la guida morale del paese lo ha trasferito alla magistratura e credo che sia stato quello il vero errore, non l’inchiesta che ha aiutato il nostro paese a scoperchiare un sistema criminale”. Non piace insomma ad Albamonte un’idea che può essere applicata all’oggi: l’idea che nel 1992 si stesse “riscrivendo la storia del paese: I magistrati devono e possono trattare solo vicende specifiche: indagati e fatti…”.