giro di tavole

Giro d'Italia 2020, Guerreiro, Almeida e la prevalenza del baccalà

Giovanni Battistuzzi

Ad Aremogna il portoghese della EF vince la tappa, quello della Deceunick conserva la maglia rosa. Qualche secolo prima pochi chilometri più a valle un monaco portoghese abbinò al pesce sottosale pan raffermo e aceto

Era la fine del Seicento quando il monaco Rogerio per qualche strano motivo divino finì dal Portogallo a Pescocostanzo. Era in pellegrinaggio diretto a Roma, finì a Montecassino, venne spedito, forse per punizione, sulle montagne abruzzesi. Lì ci rimase per anni. Rogerio era pingue e rubicondo e di una cosa non sapeva fare a meno: il baccalà. Ricordi di gioventù, ricordi di pancia. Ricordi che non poté non riproporre anche nella nova terra nella quale era finito. Baccalà che arrivava sotto sale come è d’uopo che sia, ma al quale venne aggiunta una salsa di pane raffermo e aceto, forse per toglierne un po’ di sapore stantio, nonostante l’olio bollente ne quale veniva fritto, forse per piacere di gusto e basta. Che sia stato Rogerio a creare tutto ciò rimane una suggestione che però la storia, attraverso qualche ricettario, non smentisce.

 

Rogerio dal Portogallo era finito a Rivisondoli per caso. Ruben Guerreiro e João Almeida invece a Rivisondoli ci sono arrivati per scelta. Il primo monaco, i secondi corridori, semi-monachesimo sportivo. Ruben Guerreiro Rivisondoli l’ha attraversato come avanguardista di una corsa che oggi, nona tappa del Giro d’Italia 2020, offriva il secondo arrivo in salita. João Almeida invece c’è arrivato in maglia rosa. Il primo inseguiva un successo di tappa, il secondo il perdurare di uno status quo. Entrambi sono riusciti a ottenere ciò che avevano in mente, un po’ come il monaco Rogerio con il suo baccalà.

 

Guerreiro era da anni che cercava di far capire – e forse capire – qual era il suo ruolo nel ciclismo. C’era chi avrebbe scommesso molti soldi sulla sua capacità di essere un nuovo Joaquim Agostinho, ossia un ciclista capace di grandi risultati, mattate a pedali, follie ciclistiche. Avvicinare passato e presente però, nel ciclismo, è sempre scelta azzardata, forse sciocca. Il portoghese della EF aveva sempre alternato buone prestazioni a grandi débâcle, sprazzi di volontà di emergere a lunghe pause di autocommiserazione. L’avevano descritto come uomo da giornata, come se fosse male interessarsi il giusto della classifica generale e preferire alla pesantezza dell’attenzione scientifica, l’ondivago entusiasmo del vivere alla giornata.

 

Guerreiro è come un baccalà, ha bisogno di essere ammollato e battuto per essere apprezzato. Jonathan Castroviejo inconsapevolmente si è prestato a tutto ciò. Lo spagnolo della Ineos ha, una volta tanto, fatto per sé ciò che sempre ha fatto per altri, ossia ha unito ritmo a eleganza, potenza ad agilità. Castroviejo è un corridore di un ciclismo che non esiste più prestato al ciclismo che esiste ora, un cagnaccio multidimensionale, un mulo da pedivelle, donato alle esigenze altrui. La sua fortuna è sempre stata quella che il capitano di turno fosse un capitano per cui valesse la pena sgobbare. Anche oggi Castroviejo ha messo sulla strada verso Aremogna tutta la sua generosità, il correre senza calcoli, senza limitazioni, convinto com’è che il merito prima o poi debba per forza venire fuori. Il problema per lui è che non era solo e che la peculiarità di Guerreiro è anche quella di non dirsi mai vinto. Guerreiro ha collaborato e spinto, tirato e accelerato. Anche a poche centinaia di metri dall’arrivo, quando sui pedali ha preso la testa e più l’ha lasciata.

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