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Come è avvenuto il grande riallineamento atlantista

Paola Peduzzi e Micol Flammini

La minaccia russa ha restituito fiducia tra l’America, l’Europa e persino il Regno Unito. Storia di una persuasione occidentale, intelligence alla mano

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Vladimir Putin ha scommesso sul declino dell’America e dell’occidente, e su questo non c’è troppo da dargli torto: siamo pieni di commentatori e pensatori che teorizzano la fine del liberalismo e dell’ordine liberale del mondo e che insistono sulle fragilità sistemiche che ci tormentano. E’ il bello della libertà: non devi per forza mostrarti vitaminico, forte, muscoloso, puoi anche andare a fondo delle tue debolezze senza per questo sentirti morto. Il populismo in occidente poi si nutre di declinismo, anzi, fa come lo stesso Putin: ci scommette. Per questo il presidente russo, in questa sua fase di riscrittura della storia e di nostalgia imperiale, ha pensato che sì, questo è il momento giusto per assestare un colpo durissimo. Ma dopo avere per anni borbottato sul potere americano, di fronte alla minaccia russa l’Europa si è subito reimpegnata nella salvaguardia del nostro vecchio ordine, dell’America sorella maggiore che quando c’è da difendere si ripresenta a fornire la sua protezione. Non era questa la storia che pensavamo di poter raccontare quando Putin ha iniziato a schierare le sue migliaia di soldati ai confini dell’Ucraina: eravamo reduci dal ritiro afghano, straziante e confuso e dall’esito più brutale che potessimo immaginare; ed eravamo reduci da quattro anni di trumpismo, in cui abbiamo dovuto ogni giorno interrogarci sulla tenuta delle nostre alleanze. Pensavamo, come Putin, che il declinismo, il desiderio americano di ripiegarsi sulle questioni interne per occuparsi delle fratture sociali che attanagliano il paese avrebbero portato a una semicapitolazione. La voglia di pace spesso fa perdere la forza di combattere. E anche se adesso non sappiamo come andrà a finire e vediamo l’Ucraina che si prepara alle peggiori delle battaglie ben oltre il Donbas, anche se l’allerta è massima, possiamo però raccontare la storia di un enorme riallineamento delle potenze occidentali, dell’America, dell’Europa, persino del Regno Unito che avevamo preso a considerare un rivale, della Nato. Anne Applebaum, scrittrice e attenta commentatrice dei fatti russi, ucraini e occidentali, dice: in questa storia non ci sono dei Chamberlain, non c’è qualcuno che cede alle pressioni di un dittatore. Certo, aggiunge lei, non c’è nemmeno un Churchill, ma c’è un cancelliere tedesco che è disposto a mettere in discussione i suoi stessi (e giganteschi) interessi economici per non cedere, c’è un presidente francese che si dedica indefesso, pur in mezzo a mille sospetti, alla diplomazia, c’è un premier britannico che invia armi e richiama l’occidente liberale ai suoi valori, di pace e di guerra. E c’è la Nato, unita, capace di andare oltre ai suoi tanti dissapori e problemi esistenziali. Perché come ha detto il presidente americano Joe Biden: come gli è saltato in mente, a Putin, di avere il diritto di definire a proprio piacimento i confini di paesi sovrani?


Le coccole americane a noi. L’unità transatlantica non era affatto semplice da ricostruire. Gli americani hanno però  imparato che gli europei vanno coccolati, vezzeggiati, accarezzati per il verso giusto, se li si vuole tenere stretti dalla propria parte e spingerli ad agire insieme. Tra Joe Biden e gli europei era andato tutto bene fino  al G7 e al summit Ue-Usa dello scorso anno, quando tutta la squadra economica di Biden era volata a Bruxelles per firmare, se non la pace, almeno una lunga tregua nei conflitti commerciali e annunciare la cooperazione per contenere la Cina in diversi settori. Il ritiro afghano e la firma dell’accordo  Aukus con l’Australia e il Regno Unito sull’Indo-Pacifico hanno rovinato tutto. Nel primo caso, l’Amministrazione Biden si è limitata a informare gli europei. Nel secondo caso, non lo ha nemmeno fatto sapere ai francesi che si sono visti soffiare sotto il naso un contratto da diversi miliardi di euro per la fornitura di sottomarini all’Australia. Su spinta dei francesi, l’Ue si è messa a boicottare riunioni congiunte e negoziati programmati. Subito si è installato il dubbio sull’affidabilità dell’Amministrazione Biden: è cambiato presidente ma è sempre l’America First di Donald Trump? Gli europei sono fatti così, devono vedersi al centro del mondo, più grandi di quelli che sono, come sulla mappa del cartografo fiammingo Gerardo Mercatore, che fa dell’Europa un continente più grande di quello che è nella realtà. Quando ha visto le truppe russe ammassarsi alla frontiera dell’Ucraina, l’Amministrazione Biden ha immediatamente capito che per allineare l’Ue avrebbe dovuto fare uno sforzo aggiuntivo. Anche di pazienza.

All’inizio di novembre del 2021 ha iniziato a condividere informazioni di intelligence, ma Germania, Francia e altri paesi europei hanno risposto con il consueto scetticismo. Gli Stati Uniti hanno insistito e, nelle riunioni della Nato e nei bilaterali con le capitali, hanno messo a disposizione informazioni ultra classificate. Il segretario di stato, Antony Blinken, si è incaricato dei contatti politici con i suoi colleghi ministri degli Esteri, puntando molto sulla neo arrivata Annalena Baerbock, ministro degli Esteri verde del governo di coalizione di Olaf Scholz in Germania. A un gradino più basso, Wendy Sherman ha moltiplicato gli incontri e le telefonate con i segretari generali dei ministeri degli Esteri di Francia, Germania e Italia (Francois Delattre, Tjorven Bellmann ed Ettore Sequi). Ma fino a metà gennaio, gli europei non erano ancora convinti del rischio. Gli avvertimenti americani venivano considerati “allarmisti”. Tutto è cambiato il 21 gennaio quando il consigliere diplomatico di Emmanuel Macron, Emmanuel Bonne, è andato  a Washington per incontrare il consigliere alla Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, e discutere della situazione sul terreno. La Francia si è convinta. La Germania pure. Da quel momento è iniziata la fase del coordinamento transatlantico: non solo scambio di informazioni, ma condivisione di scelte politiche e lavoro comune sul pacchetto di sanzioni da preparare in caso di attacco all’Ucraina. 

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Gli americani hanno imparato che gli europei vanno coccolati. Non lo facevano da un po’, poi hanno visto i soldati di Mosca

 

Il diritto internazionale non basta. Hans Kribbe è un analista politico e autore del libro “The Strongmen”, che tiene insieme tutti gli uomini forti: nel suo album c’è ovviamente Vladimir Putin, ci sono anche Xi Jinping, Recep Tayyip Erdogan e poi c’è Donald Trump. Riguardo all’unità della Nato di fronte alle minacce del presidente russo, Kribbe ci ha detto che per ora è così, ma le crepe rimangono:  ora sono appianate dal fatto che la minaccia non è generica, esiste davvero e ogni giorno si fa più concreta. “Le differenze sono meno esposte, ma le sfumature le vediamo già: ci sono paesi più a favore di un accordo con la Russia sulla neutralità dell’Ucraina e altri, soprattutto quelli dell’est, che non lo sono”. La Nato ha già detto che non interverrà e in questo modo ha tolto un pensiero a Putin, che anche se non vuole la guerra su vasta scala sa che, se dovesse accadere, avrà un problema in meno. “Gli occidentali usano le sanzioni, questo può far male ai russi, ma non fermano Putin. Il linguaggio degli alleati è forte, ma poi se si vanno a vedere le azioni si sa che saranno limitate”. Per Kribbe ora gli Stati Uniti, la Nato e l’Ue hanno due strade: o aumentano il dolore delle sanzioni o cercano un accordo. Certo, per trovare un accordo bisogna parlarsi e non è facile con la Russia, la cui diplomazia sembra utilizzare altre strade. La Russia, ci ha detto Hans Kribbe, “ha una cultura politica che è fatta di molta geopolitica. Le idee che regolano le leggi, i trattati, gli impegni reciproci per Mosca contano meno. Noi pensiamo che se la Russia vuole fare qualcosa di inaccettabile basterà il diritto internazionale a bloccarla, ma non è così, non funziona”.  

 

La scelta di Londra. Questa lezione su Mosca noi europei ancora non l’abbiamo imparata, ma almeno  abbiamo ripreso l’abitudine di intenderci con qualcun altro, un ex amico: il Regno Unito. Fino a qualche settimana fa pareva imminente una guerra nella Manica tra Francia e Gran Bretagna, per i pescherecci, per le capesante, per i merluzzi, per i cavi dell’elettricità – il pretesto poteva essere davvero di qualsiasi natura, ma la sintesi era: gli inglesi pensavano che i francesi fossero inutilmente aggressivi, i francesi pensavano che gli inglesi fossero inutilmente stupidi. Poi è arrivata l’offensiva russa e Boris Johnson, vuoi perché era in mezzo a uno scandalo di quelli appiccicosi, vuoi perché aspettava l’occasione per dire che la sua Global Britain non era una invenzione abborracciata, si è mostrato occidentalissimo e, soprattutto, europeissimo. Ha denunciato il progetto di Putin ai danni non tanto e non solo dell’integrità territoriale ucraina, ma del mondo uscito dalla fine della Guerra fredda; ha inviato aiuti militari a Kiev e ha detto di voler lavorare senza alcun ritardo né remora all’unità occidentale. Poi certo, Johnson è un pasticcione e uno che all’interesse britannico pensa eccome, quindi sta ancora preparando (ma ci dicono che la decisione è imminente) la lista degli oligarchi e delle persone vicine al capo del Cremlino da sanzionare. Una fonte ha detto che la lista è “significativa” sia per la lunghezza sia per i nomi che vi compaiono. Pare che ci sia una pressione quasi insostenibile da parte di molti oligarchi che vivono o operano nel Regno Unito per non finire sulla lista. Poi ci sarebbero molte altre cose da fare: il leader dell’opposizione, il laburista Keir Starmer, ha citato l’esclusione della Russia dal sistema Swift, la sospensione del canale di propaganda russa Rt, lo sradicamento dei soldi russi dalla politica inglese. Ci sono duecento milionari russi che sono arrivati nel Regno con i cosiddetti “visti d’oro” negli ultimi sette anni: si può colpire ancora.

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Il problema bielorusso. In mezzo alle nuove consonanze, si sente però un suono molto sgradevole, che non è transatlantico, ma è molto destabilizzante.  Otto anni fa Aljaksandr Lukashenka giocava il ruolo del mediatore, invitò tutti a Minsk per far la pace e dalla capitale da lui bistrattata prendono il nome gli accordi ormai falliti.   Ma oggi il dittatore bielorusso non cerca più di stare nel mezzo, sta con il presidente russo, sta trasformando la sua nazione in un campo di dispiegamento e addestramento per forze russe, taglia l’elettricità per lasciare l’Ucraina al buio, accusa Kiev e il suo presidente di essere una minaccia per la sicurezza bielorussa e dice di essere pronto a scendere in guerra al fianco della Russia. Le truppe russe in Bielorussia stanno aumentando e per la sua sopravvivenza politica, Lukashenka sta lasciando che il suo territorio venga occupato da Mosca. E’ una minaccia in più per Kiev e per  l’Alleanza atlantica tanto più che  abbiamo già visto che sa bene come giocare con i confini. Su Lukashenka e sulla Bielorussia oggi pesa un grosso  rimpianto che ha a che fare con la nostra unità: forse se contro il dittatore di Minsk ci fossimo schierati tutti insieme, le cose sarebbero andate diversamente. La Bielorussia è stata il teatro della nostra disunione, ma forse qualcosa abbiamo imparato anche da lì.    

 

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Fino a qualche settimana fa si rischiava la guerra sulla Manica, ora BoJo si mostra occidentale, certo, ma pure europeissimo

 

La strategia di Washington. L’America di Biden è il centro delle teorie decliniste tanto in voga negli anni Duemila: l’Europa si sente in una traiettoria molto diversa, parla di autonomia strategica, cerca di rafforzare il proprio peso nel mondo, è l’America che vive una stagione in cui mette di continuo in discussione il proprio ruolo preminente a livello globale. Joe Biden ha deciso di affrontare la belligeranza russa con una strategia di intelligence “trasparente”, cioè condividendo pubblicamente le informazioni di intelligence sulle mosse russe; tessendo una nuova trama più solida per tenere insieme gli alleati e la Nato; armando Kiev. Non ha evitato la guerra, e questo gli viene molto rinfacciato dai repubblicani, ma ha tolto l’illusione presente in occidente di poter applicare a Putin le nostre stesse categorie di pensiero. La prima tranche di sanzioni annunciata nei giorni scorsi è molto più corposa delle attese, la seconda è pronta se Putin dovesse andare avanti con l’invasione. Soprattutto: c’è fiducia tra gli alleati, c’è collaborazione, e si vede.


Donald Trump ha detto di essere ammirato da Putin, “c’è del genio” nella sua aggressione, e poi che meraviglia i peacekeeper, fosse Trump ancora presidente ruberebbe l’idea al suo amico russo e manderebbe i peacekeeper al confine sud, contro l’invasione dei migranti. E poi certo, lui è convinto che se fosse alla Casa Bianca, Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina, mai: non si sa se perché il presidente russo non si sarebbe permesso o se perché Trump gli avrebbe concesso di annettersi direttamente il Donbas con qualcuno dei suoi strombazzati “deal”. Noi non rimpiangiamo Trump presidente e abbiamo messo nel carrello di un sito che vende cappellini personalizzabili un paio di prodotti: la scritta è “Putin, hai reso l’occidente di nuovo grande”, e i colori sono quelli dell’Europa.

(ha collaborato David Carretta)

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