Un comizio elettorale di Kilicdaroglu a Instanbul (Lapresse)

Il paese al voto

L'umore elettorale della Turchia al bivio tra autoritarismo e diritto

Claudia Cavaliere

La serietà minacciosa di Erdogan contro la cucina e le cipolle di Kiliçdaroglu: il duello sarà fra loro due, dopo il ritiro dalla corsa presidenziale di Muharrem Ince. Ora i turchi si contano

Istanbul. La Turchia degli ultimi vent’anni è molto riconoscibile: un paese alle porte del medio oriente, sulla carta alleato della Nato, ma dal quale tutto viene con un prezzo. Il voto di domenica potrebbe essere quello che cambia tutto. Giovedì, il candidato di “disturbo” di Kemal Kiliçdaroglu, Muharrem Ince, si è ritirato dalla corsa presidenziale, facendo aumentare non solo le possibilità per l’opposizione dei sei partiti di raccogliere i suoi voti, ma anche che le elezioni possano risolversi già al primo turno. Secondo le più recenti proiezioni dell’istituto statistico Konda che sta monitorando le intenzioni di voto dei cittadini, il presidente Recep Tayyip Erdogan sarebbe al 44,2 per cento, dietro al suo sfidante principale che lo stacca di 7,5 punti, al 51,7 per cento.

 

Lo scarto si è ampliato avvicinandosi al giorno del voto. I candidati e le loro campagne elettorali non avrebbero potuto essere più diversi. Erdogan ha puntato sul fare testuggine con la sua base conservatrice, ricorrendo al suo carisma dai toni duri che marca ancora la sua svolta autoritaria degli ultimi quasi dieci anni, dopo aver indebolito il potere delle istituzioni, limitato la libertà di espressione, perseguitato oppositori politici e attivisti, in una campagna sottotono in cui ha richiamato i valori della famiglia tradizionale e più strettamente nazionalisti. Kiliçdaroglu ha scommesso sulla pancia delle persone, parlando di ritorno ai valori della democrazia, della libertà, di una Turchia aperta al mondo e all’Europa con un piano per l’economia solido e ortodosso, nonostante all’inizio fosse stato presentato come lo sfidante che ha perso tutte le elezioni a cui era stato candidato, senza carattere e incapace di trascinare le folle: nelle piazze ha dimostrato il contrario e anche da casa sua. Se le emittenti pubbliche hanno garantito una copertura totale al presidente, lo sfidante ha dovuto arrangiarsi, adottando un approccio casalingo e pubblicando video direttamente dalla sua cucina per parlare della Turchia che vorrebbe. Sul suo palco Kiliçdaroglu porta con sé cose quotidiane: uova, cipolle, il cui prezzo è dieci volte quello di due anni fa, e dice che queste sono le preoccupazioni reali della popolazione; è riuscito a parlare e a connettersi con le persone, la sua piazza è festosa, colorata, emozionata e piena di speranza e stride con quella di Erdogan che nei suoi comizi è  composto, austero, serio, minaccioso.

 

Questa voglia di cambiamento si sente potente quando si parla con i giovani, trascinanti nei loro vent’anni fatti di fiducia e promesse, quelle radici nuove che non conoscono, se non per sentito dire, il passato e pensano giustamente che tutto sia possibile: “Ci sono tre cose importanti: istruzione, diritti umani e sanità. Voglio che al mio paese importino: adesso voterò ed è importante e voglio proteggere questo privilegio. La prima soluzione ai nostri problemi è separare la politica dalla religione. So che ci vorranno anni, ma questa volta penso ci sia una squadra e del buon potenziale per cambiare”, dice Ece Ozcan, una studentessa. Come ricorda l’Economist in uno speciale sulle elezioni turche, Erdogan per primo è stato un dissidente, incarcerato e interdetto dai pubblici uffici: quando è riuscito a revocare quel divieto è stato sindaco di Istanbul, primo ministro, ha vinto cinque elezioni parlamentari, due presidenziali e tre referendum che gli hanno permesso di plasmare la Turchia, il secondo stato europeo per popolazione con i suoi 85 milioni di abitanti e l’undicesima economia al mondo nonostante un reddito pro capite in calo e un’inflazione galoppante. Nel 2016 è anche sopravvissuto a un tentativo di colpo di stato dopo il quale la via dell’autoritarismo era tracciata.

 

A Diyarbakir, la roccaforte curda nel paese che dovrebbe decidere questa tornata elettorale, raccontano il voltafaccia di Erdogan che aveva corteggiato la minoranza nei suoi primi anni al potere e che ora la accusa di essere vicina al Partito dei lavoratori del Kurdistan, che dall’occidente è inserito nella lista dei gruppi terroristici: “Diceva che eravamo tutti uguali, siamo stati usati per interessi politici, poi ha estromesso rappresentanti eletti e messo i suoi uomini. La ragione per cui è stato così a lungo al potere è che non c’è stato nessuno più forte, ma finalmente un’opposizione è stata realizzata e ha un cuore”, dice Halil, incontrato nella sua bottega nel centro del vecchio mercato. Uno dei candidati della città al Parlamento turco dice con sollievo che va bene non essere al tavolo dell’opposizione, perché nessuno si cura davvero della questione curda, ma che il partito è pronto a sostenere chiunque riporti democrazia e giustizia nel paese. Sui curdi, Berk Esen, ricercatore di Scienze politiche presso la facoltà di Arti e Scienze della Sabanci University incontrato dal Foglio, ha spiegato che il loro voto sarebbe andato al candidato dell’opposizione perché era l’unica alternativa a Erdogan, “nessun accordo sottobanco, funziona semplicemente così: mandarlo via sarà sufficiente”.

 

Più a sud, nella regione di Antiochia, per poter votare è necessario essersi iscritto nuovamente alle liste elettorali del distretto in cui si è scelto di vivere dopo il terremoto, ma abitare in una tenda di fronte al perimetro di quella che era la propria casa per non abbandonarla, fissare come priorità la ricerca della scuola più vicina in cui andare non è comune: molti hanno visto in quella tragedia l’opportunità di sbarazzarsi di un governo che li ha traditi anche nel momento in cui avevano più bisogno. Kardelen e Sabire hanno sposato due fratelli, vivono in una serie di tende che nei mesi hanno arredato tirando fuori da quello che resta della loro casa il necessario: una continuerà a votare per l’Akp di Erdogan – perché teme che scoppino disordini nel paese, non perché lo apprezzi particolarmente – l’altra dice che sono successe troppe cose ingiuste affinché niente cambi e che la cosa che più le crea dolore è che i suoi figli abbiano già dovuto imparare a chiedere aiuto. Kiliçdaroglu ha perso sempre, ma potrebbe vincere l’elezione più importante di tutte.