La linea rossa

Pechino mediatrice o opportunista? All'occidente servirà fermezza

Vittorio Emanuele Parsi

Per capire il posizionamento della Cina rispetto alla guerra in Ucraina, aiuta il precedente storico dello status di “non-belligeranza” dell'Italia fascista. C'è bisogno di scongiurare l'esito peggiore: la fornitura d'armi a Mosca

A mano a mano che la guerra di Vladimir Putin in Ucraina si fa più feroce e che il despota del Cremlino prosegue, tetragono e sanguinario, a rifiutare qualunque apertura di negoziato che non coincida con la ratifica della resa incondizionata dell’Ucraina e la consegna dei suoi dirigenti alla vendetta russa, crescono le apprensioni sull’atteggiamento della Cina. Da un lato si guarda a Pechino come possibile “mediatrice”, in grado di indurre Putin a più miti consigli. Dall’altro si ammonisce Pechino di non spingere il sostegno economico, finanziario e politico che presta a Mosca fino alla fornitura di armamenti.

 

Le due linee d’azione sembrano in una certa misura contraddittorie. In realtà possono essere inquadrate dinamicamente in una strategia che prende atto dell’attuale posizionamento cinese e cerca di congelarlo temporaneamente, per poi creare le opportunità di sospingere Pechino verso una diversa collocazione, provando a far leva sull’oggettiva non perfetta coincidenza degli interessi cinesi rispetto a quelli russi. Per capire l’esatto posizionamento di Pechino rispetto a Mosca in queste settimane credo aiuti il precedente storico dello status di “non-belligeranza” adottato dall’Italia fascista tra il settembre 1939 e il giugno 1940.

 

In quel caso, Mussolini, la retorica del cui regime era stata intrisa per oltre diciassette anni di bellicismo parolaio, cercava un escamotage comunicazionale per sfuggire alla “vergognosa condizione di neutralità” e sottolineare la “fratellanza d’armi e di intenti” rispetto alla Germania di Hitler, che aveva trascinato l’Europa in quella che diventerà la Seconda guerra mondiale. Pechino non si inventa nulla di alternativo in termini declamatori alla sua proclamata neutralità, ma nei fatti (raddoppio delle forniture energetiche acquistate dalla Russia, annunciato potenziamento dei gasdotti, incremento significativo dei flussi commerciali con la Russia, complicità nell’aggiramento delle sanzioni finanziarie soprattutto attraverso il dark web e l’utilizzo di bitcoin, fornitura di tecnologie informatiche, sostegno politico in tutti i forum politici internazionali) è sempre più allineata con Mosca. Nei nove mesi che trascorsero tra l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche e “la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna”, Londra e Parigi non commisero mai l’errore di trattare Roma come un paese neutrale. Né Édouard Daladier né successivamente Paul Reynaud a Parigi, e tantomeno Neville Chamberlain e poi Winston Churchill a Londra si fecero illusioni sulle possibili intenzioni mediatorie di Mussolini. Il fraintendimento di Monaco 1938 era alle spalle e nessuno reputava che Mussolini fosse altro che il sodale di Hitler. E lo stesso atteggiamento tenne il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, che come Churchill si rivolse al “Duce dell’Italia fascista” per ammonirlo a non varcare il Rubicone rappresentato dal passaggio dalla non-belligeranza alla discesa in guerra, chiarendo le terribili conseguenze che ciò avrebbe causato al mondo e all’Italia.

 

Oggi Washington pare muoversi con la constatazione che Pechino è tutt’altro che neutrale rispetto all’invasione dell’Ucraina e con la consapevolezza che il massimo risultato che la diplomazia possa oggi conseguire è trattenere Xi dal varcare il “suo Rubicone” – la fornitura di armi a Mosca – chiarendo il danno irreparabile e irreversibile che ciò causerebbe alle relazioni sino-americane, oltre che alla prospettiva dell’ordine e della sicurezza internazionali. I toni sono quindi perentori, per evitare che ci possano essere fraintendimenti. Ciò significa, quindi, che la prospettiva dei rapporti tra l’Aquila e il Dragone non possa prevedere un miglioramento futuro? No di certo. Perché se Pechino non passerà la linea rossa, sarà più facile che riesca a riconsiderare il costo abnorme sul medio periodo che la guerra di Putin infligge all’economia cinese (quest’anno le stime governative sulla crescita del pil sono fissate a uno sconsolante 5 per cento, record negativo e secondo alcuni osservatori fin troppo ottimistico), e i rischi per la stessa stabilità politica interna se la Cina si vedesse preclusa in maniera permanente (o fortemente limitato in maniera dolorosamente selettiva) l’accesso agli strategici mercati occidentali su asset per nulla o molto difficilmente sostituibili.

 

Questo è quindi il momento della fermezza nei confronti di Pechino, affinché la Cina sia in grado di riconsiderare i costi e i benefici (per lei, innanzitutto) della politica di sostegno allo sconsiderato avventurismo di Putin. Così che possa riaprirsi in futuro, se Xi farà le scelte giuste, una collaborazione su basi diverse fra le tre aree geografiche (Cina Europa e Stati Uniti) che insieme fanno la gran parte del valore aggiunto di qualità dell’economia mondiale. È questa la cornice al cui interno il governo italiano dovrebbe riconsiderare il senso di quel Memorandum of Understanding che prospetta una partnership strategica dell’Italia alla Nuova via della Seta, il manifesto egemonico cinese per il XXI secolo, fortemente voluto – ma guarda un po’ – dal governo gialloverde di Conte e Salvini e da quella parte di mondo affaristico che non riesce a guardare al di là del suo naso. Ma su questo torneremo in un prossimo articolo.

Di più su questi argomenti: