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Difendere il mondo libero. Un saggio di Robert Kagan

Robert Kagan 

Gli interessi degli Stati Uniti, da sempre divisi tra la sicurezza della nazione e il sostegno all’ordine liberale nel mondo, sono stati messi di nuovo alla prova dall’invasione dell’Ucraina. Dittature e democrazie. La Russia, la Cina e le risposte della potenza americana

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Prima del 24 febbraio 2022, la maggior parte degli americani concordava sul fatto che gli Stati Uniti non avessero interessi vitali in gioco in Ucraina. “Se c’è qualcuno in questa città che sostiene che dovremmo prendere in considerazione l’idea di entrare in guerra con la Russia per la Crimea e per l’Ucraina orientale”, aveva detto nel 2016 l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama in un’intervista all’Atlantic, “che lo dica”. Lo fecero in pochi. Il consenso è però cambiato quando la Russia ha invaso l’Ucraina. All’improvviso, il destino dell’Ucraina è diventato abbastanza importante da giustificare una spesa di miliardi di dollari in risorse e da sopportare l’aumento dei prezzi del gas; abbastanza importante da espandere gli impegni di sicurezza in Europa, compreso l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato; abbastanza da rendere gli Stati Uniti un co-belligerent virtuale nella guerra contro la Russia, con conseguenze ancora da vedere. Questi passi hanno finora goduto di un sostanziale sostegno in entrambi i partiti politici e nell’opinione pubblica. Un sondaggio dell’agosto scorso mostrava che quattro americani su dieci sono favorevoli all’invio di truppe statunitensi per aiutare a difendere l’Ucraina, se necessario, anche se l’Amministrazione Biden ripete che non ha intenzione di farlo.

L’invasione della Russia ha cambiato la visione degli americani non soltanto dell’Ucraina, ma anche del mondo in generale e del ruolo degli Stati Uniti. Per più di una decina di anni prima dell’invasione russa e con due diversi presidenti, il paese ha cercato di ridurre i propri impegni all’estero, anche in Europa. Secondo il Pew Research Center, la maggioranza degli americani ritiene che gli Stati Uniti debbano “farsi gli affari propri a livello internazionale e lasciare che le altre nazioni se la cavino come meglio possono”. Secondo il sondaggista Andrew Kohut, l’opinione pubblica americana si sentiva “poco responsabile e poco incline ad affrontare i problemi internazionali che non sono visti come minacce dirette all’interesse nazionale”. Eppure oggi gli americani si trovano ad affrontare due controversie internazionali che non rappresentano una minaccia diretta all’“interesse nazionale” comunemente inteso. Gli Stati Uniti si sono uniti a una guerra contro una grande potenza aggressiva in Europa e hanno promesso di difendere un’altra piccola nazione democratica contro una grande potenza autocratica in Asia orientale. L’impegno del presidente Joe Biden a difendere Taiwan in caso di attacco – “un’altra azione simile a quanto accaduto in Ucraina”, l’ha definita Biden – è diventato più netto dopo l’invasione della Russia in Ucraina. Gli americani ora vedono il mondo come un posto più pericoloso. In risposta, i budget della difesa stanno aumentando (marginalmente); le sanzioni economiche e i limiti al trasferimento di tecnologia stanno aumentando; le alleanze vengono rafforzate e ampliate.

La storia si ripete

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La guerra in Ucraina ha messo in luce il divario tra il modo in cui gli americani pensano e parlano dei loro interessi nazionali e il modo in cui si comportano effettivamente nei momenti di crisi. Non è la prima volta che la percezione degli interessi degli americani cambia in risposta agli eventi. Per più di un secolo, il l’America ha oscillato in questo modo, passando da periodi di ripiegamento, indifferenza e disillusione a periodi di impegno globale e interventismo. Gli americani erano determinati a rimanersene fuori dalla crisi europea dopo lo scoppio della guerra nell’agosto del 1914, per poi inviare milioni di truppe a combattere nella Prima guerra mondiale tre anni dopo. Erano determinati a rimanersene fuori dalla crescente crisi europea degli anni Trenta, per poi inviare molti milioni di persone a combattere nella Seconda guerra mondiale, dopo il dicembre 1941. 

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La guerra in Ucraina ha messo in luce il divario tra il modo in cui gli americani pensano e parlano dei loro interessi nazionali e il modo in cui si comportano effettivamente nei momenti di crisi. Non è la prima volta che la percezione degli interessi degli americani cambia in risposta agli eventi


Allora come oggi, gli americani agirono non per affrontare una minaccia immediata alla loro sicurezza, ma per difendere il mondo liberale al di là delle loro coste. La Germania imperiale non aveva né la capacità né l’intenzione di attaccare gli Stati Uniti. Anche l’intervento degli americani nella Seconda guerra mondiale non fu una risposta a una minaccia diretta alla nazione. Alla fine degli anni Trenta e fino all’attacco giapponese a Pearl Harbor, gli esperti militari, gli strateghi e i cosiddetti “realisti” erano concordi nel ritenere che gli Stati Uniti fossero invulnerabili alle invasioni straniere, indipendentemente da ciò che accadeva in Europa e in Asia. 

Prima dello scioccante crollo della Francia nel giugno del 1940, nessuno credeva che l’esercito tedesco potesse battere i francesi, tanto meno gli inglesi con la loro potente marina, e la sconfitta di entrambi fu necessaria prima che si potesse anche solo immaginare un attacco agli Stati Uniti. Come sosteneva il politologo realista Nicholas Spykman, con l’Europa “a tremila miglia di distanza” e l’oceano Atlantico “rassicurante” nel mezzo, le “frontiere” degli Stati Uniti erano sicure. 

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Queste valutazioni sono oggi derise, ma l’evidenza storica suggerisce che i tedeschi e i giapponesi non avessero intenzione di invadere gli Stati Uniti, non nel 1941 e molto probabilmente non lo avrebbero fatto mai. L’attacco giapponese a Pearl Harbor fu un’azione preventiva per evitare o ritardare un attacco americano al Giappone; non era il preludio a un’invasione degli Stati Uniti, cosa di cui i giapponesi non avevano alcuna capacità. Adolf Hitler pensava a un eventuale scontro della Germania con gli Stati Uniti, ma questi pensieri furono accantonati quando si impantanò nella guerra con l’Unione sovietica, dopo il giugno 1941. Anche se alla fine Germania e Giappone avessero trionfato nelle rispettive regioni, c’è motivo di dubitare, come facevano gli anti interventisti all’epoca, che entrambi sarebbero stati in grado di consolidare in tempi brevi il loro controllo su nuove e vaste conquiste, dando così agli americani il tempo di costruire le forze e le difese necessarie per scoraggiare una futura invasione. Persino Henry Luce, uno dei più importanti sostenitori dell’intervento, disse che “se si considera la pura questione di difesa della nostra patria”, gli Stati Uniti “potrebbero diventare un osso talmente duro da spezzare che i tiranni di tutto il mondo ci penserebbero due volte prima di mettersi contro di noi”.

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La concezione tradizionale di ciò che costituisce l’interesse nazionale di un paese, che può essere fatta risalire al XVI e XVII secolo, non riesce a spiegare le azioni intraprese dagli Stati Uniti negli anni Quaranta o quelle che stanno compiendo oggi in Ucraina


Le politiche interventiste del presidente Franklin Roosevelt a partire dal 1937 non furono la risposta a una crescente minaccia alla sicurezza americana. Ciò che preoccupava Roosevelt era la potenziale distruzione del mondo liberale più ampio, al di là delle coste americane. Molto prima che i tedeschi o i giapponesi fossero in grado di danneggiare gli Stati Uniti, Roosevelt iniziò ad armare i loro avversari e a dichiarare solidarietà ideologica alle democrazie, contro le “nazioni bandite”. Definì l’America “l’arsenale della democrazia”. Schierò la Marina contro la Germania nell’Atlantico, mentre nel Pacifico tagliò gradualmente l’accesso del Giappone al petrolio e ad altre risorse militari.

Nel gennaio del 1939, mesi prima che la Germania invadesse la Polonia, Roosevelt avvertì gli americani: “Arriva un momento negli affari degli uomini in cui questi devono prepararsi a difendere non soltanto le loro case, ma i princìpi della fede e dell’umanità su cui si fondano le loro chiese, i loro governi e la loro stessa civiltà”. Nell’estate del 1940, non mise in guardia gli americani dal pericolo di un’invasione, ma dal rischio che gli Stati Uniti potessero diventare “un’isola solitaria” in un mondo dominato dalla “filosofia della forza”, “un popolo rinchiuso in prigione, ammanettato, affamato e nutrito attraverso le sbarre, di giorno in giorno, dai padroni sprezzanti e senza pietà di altri continenti”. Fu questa preoccupazione, il desiderio di difendere il mondo libero, che portarono gli Stati Uniti a confrontarsi con le due grandi potenze autocratiche ben prima che una delle due rappresentasse una minaccia per quelli che gli americani avevano tradizionalmente inteso come il loro interesse nazionale. Gli Stati Uniti, insomma, non si stavano facendo gli affari propri quando il Giappone decise di attaccare la flotta americana del Pacifico e Hitler decise di dichiarare guerra nel 1941. Come disse Herbert Hoover all’epoca, se gli Stati Uniti insistevano nel “punzecchiare con gli spilli i serpenti a sonagli”, dovevano aspettarsi di essere morsi.

Il dovere chiama
La concezione tradizionale di ciò che costituisce l’interesse nazionale di un paese non riesce a spiegare le azioni intraprese dagli Stati Uniti negli anni Quaranta o quelle che stanno compiendo oggi in Ucraina. Gli interessi nazionali dovrebbero riguardare la sicurezza territoriale e la sovranità, non la difesa di convinzioni e ideologie. L’approccio moderno dell’occidente agli interessi può essere fatto risalire al XVI e XVII secolo, quando prima Machiavelli e poi i pensatori illuministi del XVII secolo, in risposta agli abusi di papi spietati e agli orrori del conflitto interreligioso nella guerra dei Trent’anni, cercarono di escludere la religione e le credenze dalla gestione delle relazioni internazionali. Secondo queste teorie, che ancora oggi dominano il nostro pensiero, tutti gli stati condividono un insieme comune di interessi primari per la sopravvivenza e la sovranità. Una pace giusta e stabile richiede che gli stati mettano da parte le loro convinzioni nella gestione delle relazioni internazionali, rispettino le differenze religiose o ideologiche, si astengano dall’intromettersi negli affari interni degli altri e accettino un equilibrio di potere che da solo può garantire la pace internazionale. Questo modo di pensare agli interessi è spesso chiamato “realismo” o “neorealismo”, e pervade tutti i dibattiti sulle relazioni internazionali.

Per il primo secolo della sua esistenza, la maggior parte degli americani ha seguito in larga misura questo modo di pensare il mondo. Pur essendo un popolo fortemente ideologizzato, le cui convinzioni erano alla base del loro nazionalismo, gli americani sono stati realisti in politica estera per gran parte del XIX secolo, percependo il pericolo di immischiarsi negli affari dell’Europa. Stavano conquistando il continente, espandendo il loro commercio e, in quanto potenza più debole in un mondo di superpotenze imperiali, si concentravano sulla sicurezza della loro patria. Gli americani non avrebbero potuto sostenere il liberalismo all’estero nemmeno se avessero voluto – e molti non volevano. Da un lato, prima della metà del XIX secolo non esisteva un mondo liberale da sostenere. Inoltre, come cittadini di una democrazia a metà e di una dittatura totalitaria fino alla guerra civile, gli americani non riuscivano nemmeno a concordare sul fatto che il liberalismo fosse una buona cosa a casa loro, tanto meno nel mondo fuori.

Poi, nella seconda metà del XIX secolo, quando gli Stati Uniti si unificarono come nazione liberale più coerente e accumularono la ricchezza e l’influenza necessarie per avere un impatto sul mondo intero, non ce ne fu apparentemente bisogno. 

Dalla metà del 1800 in poi, l’Europa occidentale, in particolare la Francia e il Regno Unito, divenne sempre più liberale e la combinazione dell’egemonia navale britannica e dell’equilibrio di potere relativamente stabile sul continente fornì una pace politica ed economica liberale di cui gli americani beneficiarono più di ogni altro. Tuttavia, loro non sostenevano alcun costo né alcuna responsabilità per il mantenimento di questo ordine. Era un’esistenza idilliaca e, sebbene alcuni “internazionalisti” ritenessero che con l’aumento del potere dovessero crescere anche le responsabilità, la maggior parte degli americani preferiva rimanere un free rider nell’ordine liberale di qualcun altro.  Molto prima che la moderna teoria delle relazioni internazionali entrasse nel dibattito, la visione dell’interesse nazionale come difesa della patria aveva senso per un popolo che non voleva e non aveva bisogno di altro che di essere lasciato in pace.

 

Tutto cambiò quando l’ordine liberale guidato dagli inglesi cominciò a crollare all’inizio del XX secolo. Lo scoppio della Prima guerra mondiale nell’agosto del 1914 rivelò un drammatico cambiamento nella distribuzione globale del potere. Il Regno Unito non poteva più sostenere la sua egemonia navale contro la crescente potenza del Giappone e degli Stati Uniti, insieme ai suoi tradizionali rivali imperiali, Francia e Russia. L’equilibrio di potere in Europa crollò con l’ascesa della Germania unificata e, alla fine del 1915, divenne chiaro che nemmeno la potenza combinata di Francia, Russia e Regno Unito sarebbe stata sufficiente a sconfiggere la macchina industriale e militare tedesca. L’equilibrio del potere globale che aveva favorito il liberalismo si stava spostando verso forze anti liberali.

Il risultato fu che il mondo liberale di cui gli americani avevano goduto praticamente a costo zero sarebbe stato sopraffatto a meno che gli Stati Uniti non fossero intervenuti per riportare l’equilibrio di potere a favore del liberalismo. Gli Stati Uniti si trovarono improvvisamente a dover difendere l’ordine mondiale liberale che il Regno Unito non era più in grado di difendere. E toccò al presidente Woodrow Wilson che, dopo aver lottato per restare fuori dalla guerra e rimanere neutrale come da tradizione, concluse infine che gli Stati Uniti non avevano altra scelta: entrare in guerra o assistere al soffocamento del liberalismo in Europa. Il distacco americano dal mondo non era più “fattibile” o “desiderabile” quando era in gioco la pace mondiale e le democrazie erano minacciate da “governi autocratici sostenuti da forze organizzate”, disse nella sua dichiarazione di guerra al Congresso nel 1917. Gli americani erano d’accordo e sostennero la guerra per “rendere il mondo sicuro per la democrazia” – Wilson non intendeva diffondere la democrazia ovunque, ma difendere il liberalismo dove già esisteva.

Conflitto di interessi
Da allora gli americani hanno lottato per conciliare queste interpretazioni contraddittorie del loro interesse nazionale: una incentrata sulla sicurezza della nazione e una sulla difesa del mondo liberale al di là delle coste degli Stati Uniti. La prima s’adatta a quel che gli americani preferiscono: essere lasciati in pace ed evitare i costi, le responsabilità e gli oneri morali dell’esercizio del potere all’estero. La seconda riflette le loro ansie di un popolo liberale di diventare un’“isola solitaria” in un mare di dittature militariste. L’oscillazione tra queste due prospettive ha prodotto un ricorrente colpo di frusta nella politica estera degli Stati Uniti dell’ultimo secolo.

Quale è più giusta, più morale? Qual è la migliore descrizione del mondo, la migliore guida per la politica americana? I realisti e la maggior parte dei teorici internazionali hanno sempre attaccato la definizione più espansiva degli interessi americani, ritenendola priva di limitazioni e quindi suscettibile di portare il paese oltre le proprie e di rischiare un conflitto terribile con le grandi potenze dotate di armi nucleari. Questi timori non si sono mai rivelati giustificati: l’aggressiva prosecuzione della Guerra fredda da parte degli americani non ha portato a una guerra nucleare con l’Unione Sovietica, e anche le guerre in Vietnam e in Iraq non hanno minato in modo fatale la potenza americana. Ma il nucleo della critica realista, ironia della sorte, è sempre stato morale piuttosto che pratico.

Negli anni Venti e Trenta, i critici della definizione più ampia dell’interesse nazionale si concentrarono non solo sui costi per gli Stati Uniti in termini di vite e soldi, ma anche su ciò che definivano l’egemonismo e l’imperialismo insiti nel progetto. Cosa dava agli americani il diritto di insistere sulla sicurezza del mondo liberale all’estero se la loro sicurezza non era minacciata? Si trattava di un’imposizione delle preferenze americane, con la forza. Per quanto le azioni della Germania e del Giappone potessero sembrare discutibili alle potenze liberali, esse, e l’Italia di Benito Mussolini, cercarono di cambiare un ordine mondiale anglo-americano che le aveva lasciate come nazioni che non avevano nulla. L’accordo raggiunto a Versailles dopo la Prima guerra mondiale e i trattati internazionali negoziati dagli Stati Uniti in Asia orientale negarono a Germania e Giappone gli imperi e persino le sfere di influenza di cui avevano goduto le potenze vincitrici. Gli americani e gli altri liberali possono aver considerato l’aggressione tedesca e giapponese immorale e distruttiva dell’“ordine mondiale”, ma si trattava, dopo tutto, di un sistema che era stato loro imposto da un potere superiore. Come avrebbero potuto cambiarlo se non esercitando la propria forza?
Come sosteneva il pensatore realista britannico E. H. Carr alla fine degli anni Trenta, se potenze insoddisfatte come la Germania erano intenzionate a cambiare un sistema che le sfavoriva, allora “la responsabilità di fare in modo che questi cambiamenti avvengano... in modo ordinato” ricadeva sui detentori dell’ordine esistente. Il crescente potere delle nazioni insoddisfatte doveva essere assecondato, non contrastato. Ciò significava che la sovranità e l’indipendenza di alcuni piccoli paesi dovevano essere sacrificate. La crescita della potenza tedesca, sosteneva Carr, rendeva “inevitabile che la Cecoslovacchia perdesse parte del suo territorio e infine la sua indipendenza”. George Kennan, all’epoca diplomatico americano di alto livello a Praga, concordava sul fatto che la Cecoslovacchia era “dopo tutto, uno stato dell’Europa centrale” e che le sue “fortune, nel lungo periodo, dovevano ritrovarsi assieme alle forze dominanti in quest’area, e non contro di esse”. Gli anti interventisti dicevano che “l’imperialismo tedesco” era stato semplicemente sostituito dall’“imperialismo anglo-americano”. 


L’ordine liberale guidato dagli inglesi cominciò a crollare all’inizio del XX secolo. Gli Stati Uniti non avevano altra scelta: entrare in guerra o assistere al soffocamento del liberalismo in Europa. Oggi la difesa dell’Ucraina è una difesa dell’egemonia liberale. Guerre di necessità e  guerre di scelta. Ma tutte le guerre americane sono state guerre di scelta


Chi critica il sostegno americano all’Ucraina avanza le stesse argomentazioni. Obama ha spesso sottolineato che l’Ucraina era più importante per la Russia che per gli Stati Uniti, e lo stesso si potrebbe certamente dire di Taiwan e della Cina. Critici di destra e di sinistra hanno accusato gli Stati Uniti di imperialismo per aver rifiutato di escludere una possibile futura adesione dell’Ucraina alla Nato e per aver incoraggiato gli ucraini nel loro desiderio di entrare a far parte del mondo liberale.

Queste accuse sono in gran parte fondate. Che le azioni degli Stati Uniti meritino o no di essere chiamate “imperialismo”, durante la Prima guerra mondiale e poi negli otto decenni dalla Seconda guerra mondiale a oggi, gli Stati Uniti hanno usato il loro potere e la loro influenza per difendere e sostenere l’egemonia del liberalismo. La difesa dell’Ucraina è una difesa dell’egemonia liberale. Quando il senatore repubblicano Mitch McConnell e altri affermano che gli Stati Uniti hanno un interesse vitale in Ucraina, non intendono dire che gli Stati Uniti saranno direttamente minacciati se l’Ucraina cade. Intendono dire che l’ordine mondiale liberale sarà minacciato se l’Ucraina cade.

Il regista
Gli americani si fissano sulla presunta distinzione morale tra “guerre di necessità” e “guerre di scelta”. Nella loro interpretazione della propria storia, gli americani ricordano l’attacco al Paese il 7 dicembre 1941 e la dichiarazione di guerra di Hitler quattro giorni dopo, ma dimenticano le politiche americane che hanno portato i giapponesi ad attaccare Pearl Harbor e Hitler a dichiarare guerra. Nel confronto della Guerra fredda con l’Unione Sovietica, gli americani vedevano l’aggressione dei comunisti e i tentativi del loro paese di difendere il “mondo libero”, ma non riconoscevano che l’insistenza del loro governo per fermare il comunismo ovunque era una forma di egemonismo. Equiparando la difesa del “mondo libero” alla difesa della propria sicurezza, gli americani consideravano ogni azione intrapresa come un atto di necessità.

Solo quando le guerre sono andate male, come in Vietnam e in Iraq, o si sono concluse in modo insoddisfacente, come nella Prima guerra mondiale, gli americani hanno deciso, a posteriori, che quelle guerre non erano necessarie, che la sicurezza americana non era direttamente a rischio. Dimenticano il modo in cui il mondo appariva loro quando hanno sostenuto quelle guerre – il 72 per cento degli americani intervistati nel marzo 2003 era d’accordo con la decisione di entrare in guerra in Iraq. Dimenticano le paure e il senso di insicurezza che provavano all’epoca e decidono che sono stati portati fuori strada da qualche cospirazione nefasta.

L’ironia della guerra in Afghanistan e di quella in Iraq è che, sebbene negli anni successivi siano state dipinte come complotti per promuovere la democrazia e quindi come esempi lampanti del  pericolo di una definizione più espansiva dell’interesse nazionale, gli americani all’epoca non pensavano affatto all’ordine mondiale liberale. Pensavano soltanto alla sicurezza. Nella paura e nel pericolo che seguirono l’11 settembre, gli americani ritenevano che sia l’Afghanistan sia l’Iraq rappresentassero una minaccia diretta alla sicurezza americana, perché i loro governi ospitavano terroristi o possedevano armi di distruzione di massa che avrebbero potuto finire nelle mani dei terroristi. A torto o a ragione, questo fu il motivo per cui gli americani inizialmente sostennero quelle che in seguito avrebbero deriso come “forever war”. Come nel caso del Vietnam, è stato solo quando i combattimenti si sono trascinati senza alcuna vittoria in vista che gli americani hanno deciso che le guerre percepite come necessarie erano in realtà guerre di scelta.

Ma tutte le guerre degli Stati Uniti sono state guerre di scelta, le guerre “buone” e le guerre “cattive”, le guerre vinte e le guerre perse. Nessuna era necessaria per difendere la sicurezza diretta degli Stati Uniti; tutte, in un modo o nell’altro, servivano a plasmare la scena internazionale. La guerra del Golfo del 1990-91 e gli interventi nei Balcani degli anni Novanta e in Libia nel 2011 riguardavano la gestione e la difesa del mondo liberale e l’applicazione delle sue regole.

I leader americani parlano spesso di difendere l’ordine internazionale basato sulle regole, ma gli americani non riconoscono l’egemonismo insito in una simile politica. Non si rendono conto che, come osservò Reinhold Niebuhr, le regole stesse sono una forma di egemonia. Non sono neutrali, ma sono progettate per sostenere lo status quo internazionale, che per otto decenni è stato dominato dal mondo liberale sostenuto dagli americani. L’ordine basato sulle regole è un’aggiunta a questa egemonia. Se grandi potenze insoddisfatte come la Russia e la Cina si sono finora attenute a queste regole, non è stato perché si sono convertite al liberalismo o perché erano soddisfatte del mondo così com’era o avevano un rispetto intrinseco per le regole. E’ stato perché gli Stati Uniti e i loro alleati esercitavano un potere superiore in nome della loro visione di un ordine mondiale desiderabile e le potenze insoddisfatte non avevano altra scelta sicura se non l’acquiescenza.

La realtà si impone

Il lungo periodo di pace tra grandi potenze che ha seguito la Guerra fredda ha presentato un’immagine del mondo allo stesso tempo fuorviante e confortante. In tempi di pace, il mondo può apparire come lo descrivono i teorici internazionali. I leader della Cina e della Russia possono essere trattati diplomaticamente in incontri tra pari, arruolati per sostenere un equilibrio pacifico di potere, perché, secondo la teoria degli interessi dominanti, gli obiettivi delle altre grandi potenze non possono essere fondamentalmente diversi da quelli degli Stati Uniti. Tutte cercano di massimizzare la propria sicurezza e di preservare la propria sovranità. Tutte accettano le regole dell’ordine internazionale immaginato. Tutti rifiutano l’ideologia come guida alla politica.

La presunzione alla base di tutte queste argomentazioni è che, per quanto il presidente russo Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping possano essere discutibili come governanti, come attori internazionali ci si può aspettare che si comportino come tutti i leader si sono sempre comportati. Hanno legittime rimostranze per il modo in cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno risolto la pace post Guerra fredda, proprio come la Germania e il Giappone avevano legittime rimostranze per la soluzione post bellica del 1919. L’ulteriore presunzione è che uno sforzo ragionevole per accogliere le loro legittime rimostranze porterebbe a una pace più stabile, proprio come l’accoglienza della Francia dopo Napoleone contribuì a preservare la pace del primo Ottocento. In quest’ottica, l’alternativa all’egemonia liberale sostenuta dagli americani non sono la guerra, l’autocrazia e il caos, ma una pace più civile ed equa.

Gli americani si sono spesso convinti che gli altri stati avrebbero seguito volontariamente le loro regole: negli anni Venti, quando gli americani salutarono il Patto Kellogg-Briand che “metteva fuori legge” la guerra; nell’immediato dopoguerra, quando molti americani speravano che le Nazioni Unite si sarebbero assunte l’onere di preservare la pace; e ancora nei decenni successivi alla Guerra fredda, quando si presumeva che il mondo si stesse muovendo ineluttabilmente verso la cooperazione pacifica e il trionfo del liberalismo. Il vantaggio aggiuntivo, forse anche il motivo, di queste convinzioni era che, se fossero state vere, gli Stati Uniti avrebbero potuto smettere di svolgere il ruolo di esecutore liberale del mondo ed essere sollevati da tutti i costi materiali e morali che ciò comportava.

 

Tuttavia, questa immagine confortante del mondo è stata periodicamente spezzata dalle realtà brutali della convivenza internazionale. Putin è stato trattato come uno statista astuto, un realista, che cercava  di riparare all’ingiustizia fatta alla Russia dall’accordo post Guerra fredda e con alcuni argomenti ragionevoli dalla sua parte – fino a quando non ha lanciato l’invasione dell’Ucraina, che ha dimostrato non solo la sua volontà di usare la forza contro un vicino più debole ma, nel corso della guerra, di usare tutti i metodi a disposizione per distruggere la popolazione civile ucraina senza il minimo scrupolo. Come alla fine degli anni Trenta, gli eventi hanno costretto gli americani a vedere il mondo per quello che è – e non è il luogo ordinato e razionale che i teorici hanno ipotizzato. Nessuna delle grandi potenze si comporta come suggeriscono i realisti, guidata da giudizi razionali sulla massimizzazione della sicurezza. Come le grandi potenze del passato, agiscono in base a convinzioni e passioni, rabbia e risentimento. Non esistono interessi “statali” separati, ma solo gli interessi e le convinzioni delle persone che abitano e governano gli stati.

Prendiamo la Cina. L’evidente volontà di Pechino di rischiare una guerra per Taiwan ha poco senso in termini di sicurezza. Nessuna valutazione razionale della situazione internazionale dovrebbe indurre i leader di Pechino a concludere che l’indipendenza di Taiwan rappresenterebbe una minaccia di attacco alla terraferma. Lungi dal massimizzare la sicurezza cinese, le politiche di Pechino verso Taiwan aumentano la possibilità di un conflitto catastrofico con gli Stati Uniti. Se domani la Cina dichiarasse di non volere più l’unificazione con Taiwan, i taiwanesi e i loro sostenitori americani smetterebbero di cercare di armare l’isola fino ai denti. Taiwan potrebbe persino disarmarsi in modo considerevole, proprio come il Canada rimane disarmato lungo il confine con gli Stati Uniti. Ma queste semplici considerazioni materiali e di sicurezza non sono la forza trainante delle politiche cinesi. Questioni di orgoglio, onore e nazionalismo, insieme alla giustificabile paranoia di un’autocrazia che cerca di mantenere il potere in un’epoca di egemonia liberale: questi sono i motori delle politiche cinesi su Taiwan e su molte altre questioni.

Poche nazioni hanno beneficiato più della Cina dell’ordine internazionale sostenuto dagli Stati Uniti, che ha fornito mercati per le merci cinesi, nonché i finanziamenti e le informazioni che hanno permesso ai cinesi di riprendersi dalla debolezza e dalla povertà del secolo scorso. La Cina moderna ha goduto di una notevole sicurezza negli ultimi decenni, motivo per cui, fino a un paio di decenni fa, spendeva poco per la difesa. Eppure è questo il mondo che la Cina mira a sconvolgere.

Allo stesso modo, le invasioni seriali di Putin negli stati vicini non sono state guidate dal desiderio di massimizzare la sicurezza della Russia. La Russia non ha mai goduto di una maggiore sicurezza alla sua frontiera occidentale come nei tre decenni successivi alla fine della guerra fredda. La Russia è stata invasa da ovest tre volte nel XIX e XX secolo, una dalla Francia e due dalla Germania, e ha dovuto prepararsi alla possibilità di un’invasione occidentale per tutta la durata della guerra fredda. Ma dalla caduta del Muro di Berlino nessuno a Mosca ha mai avuto motivo di credere che la Russia potesse essere attaccata dall’occidente.

Il fatto che le nazioni dell’Europa orientale abbiano voluto cercare la sicurezza e la prosperità dell’appartenenza all’occidente dopo la guerra fredda può essere stato un colpo all’orgoglio di Mosca e un segno della debolezza della Russia dopo la guerra fredda. Ma non ha aumentato il rischio per la sicurezza russa. Putin si è opposto all’espansione della Nato non perché temesse un attacco alla Russia, ma perché tale espansione avrebbe reso sempre più difficile per lui ripristinare il controllo russo in Europa orientale. Oggi, come in passato, gli Stati Uniti sono un ostacolo all’egemonia russa e cinese. Non sono una minaccia per l’esistenza della Russia e della Cina.

Lungi dal massimizzare la sicurezza russa, Putin l’ha danneggiata - e sarebbe stato così anche se la sua invasione fosse riuscita come previsto. L’ha fatto non per ragioni di sicurezza o di economia o di guadagni materiali, ma per superare l’umiliazione della grandezza perduta, per soddisfare il suo senso di appartenenza alla storia russa e forse per difendere un certo insieme di convinzioni. Putin disprezza il liberalismo come lo disprezzavano Stalin e Alessandro I e la maggior parte degli autocrati nel corso della storia: un’ideologia pietosa, debole, persino malata, dedita solo ai piccoli piaceri dell’individuo, quando è la gloria dello stato e della nazione che dovrebbe avere la devozione del popolo e per la quale dovrebbe sacrificarsi.

Rompere il ciclo
Che la maggior parte degli americani consideri tali attori come una minaccia per il liberalismo è una lettura sensata della situazione, così come era sensato diffidare di Hitler anche prima che commettesse un qualsiasi atto di aggressione o iniziasse lo sterminio degli ebrei. Quando grandi potenze con un passato di ostilità al liberalismo usano la forza militare per raggiungere i loro obiettivi, gli americani si sono generalmente svegliati dall’inerzia, hanno abbandonato le loro definizioni ristrette di interesse nazionale e hanno adottato la visione più ampia di ciò che vale il loro sacrificio.

Si tratta di un realismo più vero. Invece di trattare il mondo come costituito da stati impersonali che operano secondo la propria logica, comprende le motivazioni umane che ne stanno alla base. Capisce che ogni nazione ha un insieme unico di interessi propri della sua storia, della sua geografia, delle sue esperienze e delle sue convinzioni. E anche che non tutti gli interessi sono permanenti. Gli americani non avevano gli stessi interessi nel 1822 che hanno due secoli dopo. E deve ancora arrivare il giorno in cui gli Stati Uniti non potranno più contenere gli stati che sfidano l’ordine mondiale liberale. La tecnologia potrebbe rendere irrilevanti gli oceani e le distanze. Anche gli stessi Stati Uniti potrebbero cambiare e smettere di essere una nazione liberale.

Ma quel giorno non è ancora arrivato. Nonostante molti spesso sostengano il contrario, le circostanze che hanno reso gli Stati Uniti il fattore determinante negli affari mondiali un secolo fa persistono. Come le due guerre mondiali e la guerra fredda hanno confermato che gli aspiranti egemoni autocratici non potevano realizzare le loro ambizioni finché gli Stati Uniti erano protagonisti, così Putin ha scoperto la difficoltà di realizzare i suoi obiettivi finché i suoi vicini più deboli possono contare su un sostegno praticamente illimitato da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si può sperare che anche Xi ritenga che non sia il momento giusto per sfidare direttamente e militarmente l’ordine liberale.

La questione più importante, tuttavia, riguarda ciò che gli americani vogliono. Oggi sono stati nuovamente svegliati per difendere il mondo liberale. Sarebbe stato meglio se fossero stati svegliati prima. Putin ha trascorso anni a sondare cosa gli americani avrebbero tollerato, prima in Georgia nel 2008, poi in Crimea nel 2014, mentre costruiva la sua capacità militare (non bene, a quanto pare). La cauta reazione americana a entrambe le operazioni militari, così come alle azioni militari russe in Siria, lo ha convinto ad andare avanti. Stiamo meglio oggi per non aver corso i rischi di allora?

“Conosci te stesso” era il consiglio degli antichi filosofi. Alcuni critici lamentano il fatto che gli americani non abbiano discusso seriamente le loro politiche nei confronti dell’Ucraina o di Taiwan, che il panico e l’indignazione abbiano soffocato le voci dissenzienti. Hanno ragione. Gli americani dovrebbero avere un dibattito franco e aperto sul ruolo che vogliono che gli Stati Uniti svolgano nel mondo.

Il primo passo, tuttavia, è riconoscere la posta in gioco. La traiettoria naturale della storia in assenza di leadership americana è evidente: non è andata verso una pace liberale, un equilibrio stabile di potere o lo sviluppo di leggi e istituzioni internazionali. Al contrario, porta alla diffusione di dittature e a continui conflitti tra grandi potenze. E’ in questa direzione che si stava dirigendo il mondo nel 1917 e nel 1941. Se oggi gli Stati Uniti dovessero ridurre il loro coinvolgimento nel mondo, le conseguenze per l’Europa e l’Asia non sono difficili da prevedere. I conflitti tra grandi potenze e le dittature sono stati la norma nella storia dell’umanità, mentre la pace liberale è stata una breve anomalia. Solo la potenza americana può tenere a bada le forze naturali della storia.

 

© 2023 Council of Foreign Relations, publisher of Foreign Affairs

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