Foto di Jordan Strauss, via Invision, via AP, via LaPresse 

leadership di colossi

Perché la Disney crede di non farcela senza il suo superboss Bob Iger

Giulio Silvano

L’ex capo è stato messo tra parentesi e per un breve periodo sostituito da Chapek, il quale, senza le esperienze del #MeToo, della nascita della piattaforma di streaming, della gestione del mondo Marvel, non ha saputo reggere il ruolo

Star Wars, l’universo cinematografico Marvel, i Muppets, Indiana Jones, Toy Story, la 20th Century Fox, Hulu e National Geographic sono solo alcuni dei marchi, dei network e dei prodotti che sono entrati a far parte del mastodontico mondo Disney. Questa espansione dell’azienda a gigante dell’intrattenimento si deve soprattutto a un uomo, che per quindici anni ha guidato la Walt Disney Company: Bob Iger. Diventato ceo nel 2005 Iger, ebreo di New York con un lungo passato all’Abc, ha concluso acquisti miliardari, con Rupert Murdoch o George Lucas o Steve Jobs, e ha espanso il mondo di Micky Mouse in Asia, aprendo un parco divertimento a Shanghai e investendo in Cina oltre 5 miliardi di dollari.

 

Da quando nel 2005 aveva inglobato la Pixar, lo studio d’animazione digitale più proficuo di sempre, lo shopping di Iger non si è più fermato. Alcuni si sono spaventati che potesse diventare un monopolio dell’entertainment: molti fan e critici hanno avuto paura che alcuni prodotti – come i film di Guerre Stellari o Spider-Man – potessero perdere il loro carattere originario, venendo spremuti al massimo per creare profitto, tra spin-off, serie animate e non, merchandising e una lista lunghissima di film. Negli ultimi cinque anni sono usciti sedici film e sedici serie Marvel che molto spesso hanno sbancato al botteghino.

 

Iger, nei suoi anni alla Disney, ha visto anche cadere diverse teste per il #MeToo o per qualche vecchio tweet, mentre lui, considerato da tutti una persona amabile e gentile, è sempre rimasto al suo posto, aumentando i profitti dell’azienda. Sotto la sua guida è stato fondato Disney+, il canale in streaming che è riuscito, sommato agli altri servizi online dell’azienda, a superare gli abbonati di Netflix. Poi nel 2020, arrivato vicino ai settant’anni, ha deciso di passare le redini a qualcun altro. Sempre dalla parte dei democratici moderati, quell’anno ha addirittura pensato di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, ma poi ha lasciato perdere. 

 

Il suo successore è stato Bob Chapek, poco più giovane, che aveva lavorato a lungo alla divisione parchi divertimento, e che ha dovuto affrontare gli anni della pandemia, che hanno colpito duramente hotel, resort, crociere e tutti i DisneyWorld e DisneyLand. Le cose sembravano esser andate bene e proprio a giugno gli avevano allungato il contratto. Ma gli effetti della sua gestione si sono fatti sentire in questi ultimi mesi in cui l’azienda ha perso grosse percentuali, soprattutto per via della riorganizzazione messa in moto da Chapek. Spaventato che nessuno tornasse in sala, il nuovo ceo aveva creato una nuova divisione digital cercando di veicolare i film sulle piattaforme. Ma lo streaming non ha (ancora) la stessa forza del cinema – “Black Panther 2: Wakanda Forever”, uscito il 9 novembre ha superato i 500 milioni di dollari il secondo weekend.

 

Un colosso come Disney è difficile da gestire, non solo per la sua tentacolarità, per la sua eredità e per la sua multimedialità, ma anche per una questione culturale. Da una parte la costante critica identitaria dei personaggi – i soliti temi di rappresentatività, razza, Lgbtq e compagnia – e dall’altra il tentativo di aprirsi a mercati emergenti senza offendere culture, costumi e sensibilità locali. Sono finiti gli anni dei corti animati con black-face e comiche stereotipizzazioni razziste.

 

Di recente, Ron DeSantis, il governatore della Florida e probabile candidato presidenziale repubblicano, aveva bollato Disney come un’azienda “woke” aumentando le tasse ai grossi parchi divertimento di Orlando e di Lake Buena Vista. Chapek è stato criticato per come ha gestito la polemica. Non solo, secondo molti a Chapek mancava un’intelligenza emotiva per riuscire a lavorare con i creativi dell’azienda – il suo nucleo – prendendo molte decisioni senza tenerli in considerazione. Iger è stato richiamato, dopo una breve pausa, a guidare di nuovo l’impero Disney, nonostante abbia cercato di rifiutare per godersi la pensione. Una grossa nave, ha pensato il consiglio di amministrazione, ha bisogno di un capitano che conosce sia il mare che l’equipaggio.

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