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medio oriente

Il peso dei partiti arabi sul prossimo governo in Israele

Claudia Cavaliere

A queste elezioni, le tre fazioni arabo-israeliane si presentano divise, a fronte di una base scoraggiata e indecisa sul fatto stesso di recarsi o meno alle urne. Sebbene la maggior parte dei cittadini palestinesi nel paese sia a favore di una maggiore integrazione nell'esecutivo, l'affluenza ha registrato una tendenza al ribasso negli ultimi dieci anni

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Quelle di martedì 1 novembre saranno le quinte elezioni per Israele in quattro anni e, secondo gli analisti, di fatto non sistemeranno la situazione più di quanto abbiano già fatto quelle precedenti. Quello che appare cruciale è il posizionamento degli arabo-israeliani, quei palestinesi che detengono la cittadinanza israeliana e che corrispondono a un quinto della popolazione votante del paese.

Alla Knesset gli arabo-israeliani hanno storicamente avuto seggi – hanno raggiunto il loro massimo due anni fa, arrivando a contarne 15 – ma i loro rappresentanti non hanno mai fatto parte di una coalizione di governo. Gli equilibri sono cambiati nell’estate del 2021, quando Mansour Abbas, il leader della Lista araba unita – conosciuta anche con l’acronimo ebraico Ra’am –, ha seguito Yair Lapid e Naftali Bennett nell’ambizioso progetto di un’alleanza a otto partiti: di destra, di centro, di sinistra e per la prima volta nella storia dello stato di Israele di uno arabo, uniti dall’unico obiettivo di togliere il potere dalle mani di Benjamin Netanyahu e del suo partito Likud, che sembra essere una motivazione sufficiente a tenerli insieme ancora oggi. A queste elezioni, tuttavia, le tre fazioni arabo-israeliane si presentano divise a fronte di una base scoraggiata e indecisa sul fatto stesso di recarsi o meno alle urne: secondo i sondaggi, la Lista araba unita e la coalizione composta dal partito comunista Hadash e dal nazionalista laico Ta’al potrebbero ottenere quattro seggi ciascuna, mentre la terza, Balad, potrebbe addirittura non raggiungere la soglia del 3,25 per cento dei voti richiesta dal sistema israeliano proporzionale per l’assegnazione di una rappresentanza in parlamento. 

Quando Abbas ha fatto entrare nella coalizione di governo il suo partito arabo è successo quello che accade sempre: la base elettorale si è spaccata tra chi ha colto nell’essere un partito al governo l’opportunità di un cambiamento e la possibilità di far valere i propri diritti e chi ci ha visto il tradimento della causa palestinese e, a un anno di distanza, pochi miglioramenti nella vita dei cittadini palestinesi. Sebbene la maggior parte dei cittadini palestinesi di Israele sia a favore dell’integrazione e di un maggiore coinvolgimento nel governo, l’affluenza alle urne ha in gran parte registrato una tendenza al ribasso negli ultimi dieci anni, secondo quando spiegato al New York Times da Khalil Shikaki, direttore del Centro palestinese per la ricerca politica e i sondaggi di base a Ramallah. “Sempre più persone dicono: che senso ha partecipare se non cambia nulla? Ovviamente, non è giusto giudicare ciò che Mansour Abbas e il suo partito hanno fatto in un solo anno, ma la gente ritiene che non ne valga la pena”. Secondo i sondaggi la partecipazione arabo-israeliana resterà intorno al 42 per cento, dato che potrebbe avere gravi ripercussioni sui risultati, portando potenzialmente i voti dei partiti palestinesi al di sotto della soglia necessaria per entrare alla Knesset. Su questi umori, si innestano le altre forze politiche: da una parte i sondaggi mostrano che la coalizione di destra  di Netanyahu potrebbe vincere tra 59 e 61 seggi, sfiorando la maggioranza necessaria per governare, dall’altra c’è ancora Yair Lapid orfano di Bennett che ha già governato con gli arabi, ma questa alla luce del malcontento generale potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Così, la composizione del nuovo Parlamento dipenderà anche dall’affluenza alle urne tra gli arabi-israeliani, il disegno della maggioranza dai suoi numeri.

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