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Il 40° giorno

I manifestanti iraniani si chiedono se ci sarà un leader e quale sarà il ruolo dei pasdaran

Tatiana Boutourline

La marcia sulla tomba di Mahsa, le serrande giù e la domanda di tutti: dove va la rivoluzione? "Il Kurdistan sarà il cimitero dei fascisti" hanno gridato donne, giovani, anziani e uomini arrivati per manifestare contro il regime

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Splendeva il sole sopra Saqqez ieri mattina, sole sopra le strade bloccate dalla polizia e presidiate dagli agenti antisommossa, sole sopra le scuole e le università, sigillate a causa di una fulminante “epidemia d’influenza”, sole sopra la marcia eroica di migliaia di persone che hanno costeggiato il guard rail e si sono incamminate su per la collina, oltre il torrente, fino al cimitero di Aichi. Perché Saqqez è la città nel Kurdistan iraniano in cui Mahsa Amini è nata e questo è il cimitero in cui è sepolta, il luogo in cui si è accesa la rivolta. Ed è in questo cimitero che la famiglia Amini avrebbe desiderato tenere la cerimonia rituale per commemorare Mahsa a quaranta giorni dalla sua morte, se le autorità non fossero intervenute costringendola a cancellarla, pena l’arresto del fratello della ragazza.

 

Il Kurdistan però non si è lasciato intimidire: lo sciopero generale convocato a Saqqez si è esteso in tutta la regione da Marivan a Sanandaj, da Kamyaran a Mahabad, da Bukan a Javanrud. E al cimitero di Aichi sono arrivate donne velate e donne a capo scoperto, giovani, anziani e uomini che hanno fatto roteare i foulard delle mogli sopra la testa. “Libertà, libertà!”, hanno gridato. “Il Kurdistan sarà il cimitero dei fascisti”. “Erano ovunque”, ha detto una testimone citata dalla Bbc a proposito della presenza ingombrante dei bassiji, che, stando ai racconti, si sono scagliati sui manifestanti. Scene ancora più cruente sono state osservate nel centro di Saqqez.

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Ma ieri è stata una giornata particolare in tutto il paese. A Shiraz, Mashad, Rasht, Arak e Bushehr molti mercanti hanno chiuso le serrande. E nel gran bazaar di Teheran è andata in scena una protesta inusitata nella sua virulenza. “Gli adolescenti sono in prigione e gli adulti senza spina dorsale restano seduti a far niente”, scandivano i negozianti che per decenni sono stati considerati il polmone del regime. E così nei centri commerciali, sulle banchine delle metropolitane e dentro i treni, così davanti alla raffineria di petrolio di Teheran e nelle università della capitale, ma anche a Shiraz e a Mashad dove gli studenti hanno strappato l’effigie del padre della rivoluzione Ruhollah Khomeini e quella del suo successore Ali Khamenei.

 

“Per ogni persona che assassinate, altre mille verranno avanti”, hanno cantato a Teheran i ragazzi dell’università Amir Kabir. “Né Gaza, né Libano. Io sacrifico la mia vita per l’Iran”, era il grido che riempiva l’aria a Rasht. A Gorgan, nei pressi della moschea di Hazarat Ali, una colonna di fumo usciva da un ufficio in uso ai bassiji.
Il regime lo presagiva, sapeva che il chehelom, il quarantesimo giorno, sarebbe stato intenso e ha scelto di mostrare i denti con uno schieramento imponente delle forze antisommossa. Spari, idranti, grida, cassonetti in fiamme e corse con il cuore in gola. Sono state ventiquattro ore di passione, di collera, di violenza e di coraggio quelle che hanno vissuto le piazze iraniane in rivolta, ma a sei settimane dall’inizio delle manifestazioni, la domanda sulla bocca di tutti è: dove sta andando la protesta? Si tratta di un’insurrezione o del principio di una rivoluzione? Gli attivisti non hanno dubbi.

 

Quella che state osservando è una rivoluzione, assicurano e si indignano quando qualcuno, come Rob O’Malley, l’inviato speciale che si occupa del dossier iraniano per Joe Biden,  sminuisce la portata rivoluzionaria di ciò che sta accadendo. Non si tratta soltanto di un capriccio semantico, di un hashtag da aggiungere in fondo a un tweet, le definizioni contano ed è un fatto che nelle piazze iraniane si invochi la caduta del regime e che nessuno si sogni di implorare il rispetto di “legittime richieste” da parte di Khamenei. Ciò detto, la domanda resta: come si passa dalla perdita di legittimità del regime all’effettiva perdita del suo potere? Perché è vero che una rivoluzione non è una rivoluzione fino a che non vince, ma è vero pure che restano molti ostacoli nella terra di mezzo tra la mobilitazione e la vittoria.

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Il leader. Non esiste una figura carismatica, qualcuno che guidi la rivolta. Il regime ha polverizzato l’opposizione, ma le prigioni iraniane sono piene di potenziali leader, come l’avvocato per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, altre personalità di valore stanno emergendo e seguiteranno a emergere, se la protesta non arretrerà. L’organizzazione è una questione più complessa, non solo per la difficoltà di comunicare, ma anche per l’assenza di strutture di coordinamento e di piattaforme d’intenti condivise. Anche in questo caso si tratta di una difficoltà oggettiva, ma di settimana in settimana si stanno costruendo relazioni e solo il tempo potrà dire cosa emergerà da questo dialogo. Le milizie. È questo il grande moloch che pesa sui sonni dei manifestanti. Che ruolo giocheranno i pasdaran e i bassiji?

 

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È possibile che il vincolo che li lega alla Republica islamica si spezzi? Arash Azizi, osservatore acuto e autore di un libro illuminante su Qassem Suleimani, sostiene che è necessario offrire una sponda ai pretoriani di Khamenei, un salvacondotto che permetta loro di immaginarsi in un’altra realtà, perché i generali hanno tutto da perdere nel caso di un cambio di regime, ma non è detto che lo stesso discorso valga per la manovalanza. Qualche giorno fa il quotidiano online Kayhan Life (anti regime, da non confondersi con il pro regime Kayhan) ha pubblicato un’intervista anonima di un pasdaran. L’uomo, figlio di un generale e fratello di un altro pasdaran, ha detto di odiare  il sistema e di considerarsi un oppositore da molti anni. “Noi, come voi, siamo nemici del regime”, ha detto lamentandosi del salario insufficiente e della brutalità degli ordini che deve impartire. Ed è su queste fratture che devono lavorare i manifestanti, difendersi, turarsi il naso, e guadagnare proseliti alla causa. 

 

Chi l’avrebbe detto sei settimane fa che tutto il mondo avrebbe conosciuto il nome di Mahsa Amini, che il suo volto sarebbe stato proiettato sul fianco di un palazzo di Teheran, che la notte i muri si sarebbero riempiti di graffiti con su scritto: “Khamenei dittatore, ricordati che niente lava via il sangue”? A Teheran vanno avanti pensando a Martin Luther King, ha scritto l’analista del Carnagie Endowment, Karim Sadjadpour. “So che oggi vi chiedete: Quanto tempo ci vorrà? Quanto tempo? Non troppo a lungo, perché nessuna bugia può vivere in eterno. Quanto a lungo? Non troppo a lungo, perché l’arco morale dell’universo è lungo, ma si piega verso la giustizia”.

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