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le parole dei  nazionalisti

La “malattia nazionalistica” dell’Europa centrale nasce da un impasto di messianismo e populismo

Francesco M. Cataluccio

Lingua e nazione sono un binomio potente ma anche esplosivo. Così artisti e filosofi hanno provato a distruggere l’uomo europeo in nome di miti di dominio

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Giuliano de’ Medici, a quanto riferisce Baldassar Castiglione (“Il Libro del Cortegiano”, 1528: Libro Secondo, LV), raccontava di un mercante lucchese che si recò in Polonia per acquistare dai Moscoviti una partita di zibellini. Si dettero appuntamento sulle rive opposte del Boristene (odierno Dnepr, in Ucraina) ghiacciato come il marmo. Iniziò la trattativa sul prezzo con i Moscoviti che gridavano dall’altra parte della riva, ma “tanto era estremo il freddo, che non erano intesi; perché le parole, prima che giungessero all’altra riva, dove era questo luchese e i suoi interpreti, si gelavano in aria e vi restavano ghiacciate e prese in modo, che quei Poloni che sapeano il costume, presero per partito di far un gran foco proprio al mezzo del fiume, perché a lor parere quello era il termine dove giungeva la voce ancor calda prima che fosse dal ghiaccio intercetta (…) Onde, fatto questo, le parole, che per spacio di un’ora eran state ghiacciate, cominciarono a liquefarsi e descender giù mormorando, come la neve dai monti il maggio; e così sùbito furono intese benissimo…”.

 

Il significato delle “parole calde”, usate contro il gelo menzognero del potere, lo compresi quando studiavo Storia delle idee a Varsavia, nella prima metà degli anni Ottanta. Avevo molti amici, anche tra i professori, negli ambienti dell’opposizione democratica. Di quell’esperienza, che ho in parte raccontato nel mio libro “Vado a vedere se di là è meglio” (Sellerio, 2010; 2018), mi è rimasto impresso il loro rapporto con il linguaggio: esso è stato la più potente arma di battaglia dei dissidenti e degli oppositori. Il Potere è stato sconfitto anzitutto dallo smantellamento sistematico (attraverso la letteratura, la poesia, il teatro, i saggi) del suo linguaggio, delle menzogne che esso trasmetteva, della insostenibilità della “Neolingua“ (termine coniato, nel 1949, da George Orwell nel romanzo “1984”). Ricordo che una volta che mi trovavo in ascensore con lo storico dissidente Adam Michnik, mi mostrò la targhetta sopra la pulsantiera dove stava scritto: “Dzwig osobowy” (letteralmente: “Montacarichi per persone”). In polacco, mi disse, esisteva la parola per quella cabina che ci stava portando su: “Winda”. Usare “montacarichi per persone”, secondo lui, era una degradazione della vita delle persone. La mia professoressa, Maria Janion (1926-2020), ci insegnò il rispetto profondo per il linguaggio e per la vera letteratura. In un’intervista per la televisione polacca (2012), alla domanda della sua ex studentessa, Kazimiera Szczuka, sul perché durante la guerra studiasse il tedesco e se non provasse un disagio con la lingua degli oppressori, Janion rispose che, pur essendo molto giovane, riusciva bene a distinguere la differenza tra le urla dei soldati e i testi di Rilke. Che doveva farlo, altrimenti sarebbe diventata pazza. Alle mie militanti compagne di corso disse più volte che lo stesso andava fatto per la lingua e la letteratura russa (“forse la più grande letteratura mai scritta”), anche se, come oggi, è la lingua del feroce invasore.

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La critica della Neolingua fu allo stesso tempo una battaglia per la Verità contro le menzogne del Potere. Ma anche contro l’odio che non fa differenza. Come scrisse il poeta Adam Zagajewski (1945-2021) nella poesia “La fine del mondo” (1975): “C’è un momento / in cui le vecchie parole non hanno più valore né importanza / e nuove parole ancora non ci sono / un momento in cui tutti i trionfi si rivelano essere / banali travisamenti/ (…) mentre la speranza non possiede in propria difesa /neanche una parola”.

  

La letteratura del centro Europa è stata fino al Diciassettesimo secolo dominata dalla lingua latina. La produzione letteraria nelle lingue “volgari” dei vari paesi ha iniziato ad affermarsi proprio quando questi paesi tentavano di acquistare l’indipendenza politica. Allora nacque una vera e propria “letteratura nazionale”.

 

La lingua era il luogo di sopravvivenza dell’identità nazionale oppressa. Gli scrittori e i poeti, come profeti, si sentirono obbligati a trattare temi patriottici. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, ma per alcuni popoli anche prima,  iniziò a formarsi una intelligentsia di origine borghese o contadina i cui intellettuali e artisti avviarono un lavoro di raccolta delle tradizioni popolari, specie dei racconti e dei canti, che va a costituire il materiale di una letteratura nazionale, di una musica nazionale, di un’arte nazionale. Come ha notato giustamente il filosofo polacco Krzystof Pomian (“L’Europe et ses nations”, 1990): “Se esistono nazioni delle quali si può dire che furono create dai loro stati, queste nazioni invece sono state create dalle loro élites religiose e culturali, dai loro sacerdoti e maestri di scuola”. Con l’epoca romantica infatti, il binomio lingua/nazione prese, in Europa, un grande impulso. Non soltanto in Germania si sentirono con forza i cupi rimbombi dell’altro lato della medaglia: la rivendicazione della superiorità basata sulla lingua.  Basti ricordare il filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814)  che sosteneva che solo i tedeschi erano una vera nazione (ein Urvolk) parlante una lingua viva, mentre le altre lingue erano “morte alle radici”, nient’altro che echi.

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Due grandi storici inglesi contemporanei hanno riflettuto sul rapporto che c’è stato tra lingua e sentimento nazionale nella storia europea del XIX secolo, giungendo a conclusioni opposte. Eric J. Hobsbawm (in: “Nation and Nationalism since 1780”, 1990) è abbastanza scettico sullo stretto legame che intercorrerebbe tra lingua e nazione e sostiene che soltanto una tarda generalizzazione sancisce che gli individui che parlano la stessa lingua sono in qualche modo amici, mentre quelli che parlano una lingua straniera sarebbero ostili. Egli cerca di dimostrare che lingua e popolo, in qualsiasi modo li si definisca, non coincidono e sono associabili più per un’astratta concezione letteraria che per una reale esperienza di vita: “L’identificazione di tipo quasi mistico tra nazionalità e una specie di idea platonica della lingua, che esisterebbe  al di là e al di sopra  delle sue diverse varianti e versioni imperfette, sembra più che altro il frutto di una costruzione ideologica  di intellettuali nazionalisti, dei quali Herder si può considerare  il profeta, che non quello degli ordinari utilizzatori di una lingua”. Invece per Lewis B. Namier (“La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull’Ottocento europeo”, Einaudi, 1957) i nazionalismi che nel 1848 entrarono nella scena politica e la occuparono durante i successivi cento anni, furono soprattutto linguistici.

 

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Essi si fondavano sulla richiesta che lo stato avesse la stessa estensione della nazionalità linguistica: “Il 1848 segnò, in bene o in male, l’aprirsi dell’éra dei nazionalismi linguistici che foggiarono le personalità di massa e produssero i loro inevitabili conflitti: una nazione che basi la propria unità sulla lingua non può facilmente rinunciare a gruppi di connazionali mescolati a quelli della nazione vicina”. Namier, che era di origini galiziane ed era dovuto emigrare in Inghilterra, sostiene in modo convincente che il concetto di nazionalità è linguistico e razziale, piuttosto che politico e territoriale.  Egli mostra come esso sia divenuto, a partire dall’epoca romantica,  dominante sul continente, con tutte le tragedie che ne sono conseguite: “Ogni nazione era esaltata sopra tutte le altre: sogni compensativi di grandezza, fatti da nazioni sofferenti o afflitte e da individui disancorati: sogni immaturi, paragonabili alle fantasticherie degli adolescenti. Nazioni unificate, rigenerate o risorte, hanno da allora dimostrato di non essere in alcun modo migliori di altre nazioni: c’è un limite ai miracoli anche nel Paese delle Meraviglie, come Alice scoprì quando mangiò la torta. E ciò che resta, dopo che la doratura idealistica del nazionalismo è scomparsa, è la pretesa alla superiorità, quindi al dominio”.

 

Con quello che è successo dopo il 1989 in Europa, queste parole appaiono ancora più giuste e attuali. Lingua e nazione sono, come si è potuto vedere, un binomio potente ma anche esplosivo. Una coppia di fenomeni che ha giocato un fondamentale ruolo nelle giuste battaglie per la formazione delle grandi nazioni e l’indipendenza dei piccoli popoli oppressi, ma che troppo spesso si sono trasformati in uno strumento di nuove oppressioni e soffocanti chiusure culturali. La lingua e la cultura altrui vengono considerate nemiche della propria identità nazionale, portatrici di  “parole che ipnotizzano”, come denunciava un campione dello “slavismo”, il famoso linguista russo Nikolaj SergeevicčTrubeckoj, molto amato dai pensatori nazionalisti vicini a Putin, che utilizzò gli studi sulla lingua per sostenere il nazionalismo russo contro le influenze “nefaste” della cultura europea (cfr. “L’Europa e l’umanità”, 1920). 

 

Come ha sostenuto il filosofo ungherese Istvàn Bibò (in: “Miseria dei piccoli stati dell’Europa orientale”, 1946): “L’intellighenzia nazionale aveva un prestigio sociale e un passato, una tradizione ed una cultura politica ridotti rispetto alla classe intellettuale dell’Europa occidentale, ma allo stesso tempo la sua importanza e la sua responsabilità dal punto di vista dell’esistenza della nazione erano assai maggiori. Crebbe in maniera particolare l’importanza di quelle professioni intellettuali che si occupavano delle caratteristiche distintive delle comunità nazionali, e le curavano: scrittori, linguisti, storici, preti, insegnanti, etnografi. Per questo motivo in questi paesi la ’cultura’ è divenuta un momento di eccezionale importanza politica, che però non significava tanto una fioritura culturale, quanto piuttosto una politicizzazione della cultura. E poiché questi paesi non ‘esistevano’ secondo il senso di ininterrotta continuità storica dato in occidente, il compito che toccava all’intellighenzia nazionale diveniva quello di scoprire e di curare le individualità linguistiche ed etniche indipendenti e caratterizzanti la nuova e rinata nazione, dimostrando – fatto per altro autentico – che questi nuovi quadri etnici, malgrado tutte le lacune della loro vita nazionale, erano più radicati dei quadri dinastici esistenti. Su questa via nacque  l’ideologia del nazionalismo linguistico (…) Tale evoluzione divenne il punto di partenza di una funesta deviazione, poiché da qui presero il via quelle torbide concezioni e filosofie politiche che in seguito sommersero la vita pubblica, già gravida di timori, di queste comunità”. La malattia nazionalistica di questi paesi, che Bibò ha messo in luce con grande acutezza si riflesse anche nell’arte, riducendo talenti anche notevoli a dei megafoni prima dei sentimenti popolari, poi del più violento nazionalismo. Gran parte infatti del romanticismo dei paesi dell’Europa centrale è un impasto di messianismo e populismo.

 

I vari movimenti di rinascita nazionale, accompagnati dall’ideologia romantica che esaltava le radici popolari e contadine delle nazioni, hanno dato vita  a stati indipendenti, ma hanno anche posto le basi per la catastrofe dell’Europa, distruggendone i valori comuni. Il popolo, nella prima fase della creazione identitaria, svolge un ruolo di fossile vivente garante della ricostruzione di una discendenza illustre. Le usanze contadine, inizialmente giudicate degne di interesse solo in quanto vestigia della cultura ancestrale, diventano in seguito simboli della patria  e referenti etici; i contadini servono ormai a dimostrare, che, nonostante tutti i cambiamenti osservabili, la nazione resta immutabile. “L’uomo europeo è precisamene l’uomo cittadino, la società civile”, ricordava l’intellettuale ceco Antonin Liehm (“Praga, rovine d’Europa”, sull’Unità, 24 febbraio 1988). Il nascente cosmopolitismo cittadino venne sconfitto dal nazionalismo dei poeti e degli artisti attratti dalla “purezza e autenticità del mondo contadino”.

Gli elementi sovranazionali pur presenti nei movimenti rivoluzionari del 1848 furono soffocati dal folclore campagnolo. E trionfarono il romanzo storico e i racconti popolari. Di ciò abbiamo pagato le conseguenze per molti decenni sia nel campo politico che in quello letterario e artistico. Dopo tutte le tragedie che l’Europa ha prodotto, subìto e continua a subire, soprattutto a causa dei nazionalismi, è molto importante che gli intellettuali non si arrocchino nelle proprie lingue e facciano proprie le parole del poeta Premio Nobel Czesław Miłosz, che, all’inizio del suo esilio in occidente, scrisse: “La mia terra / Si trova qui e ovunque, da qualunque parte mi volga / O in qualunque lingua oda / Il canto d’un bimbo, la conversazione di amanti” (Cz. Miłosz, “Mittelberghein”, Alsazia 1951).

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