(foto di Ansa)

damnatio memoriae

La Lituania e la desovietizzazione dei monumenti

Francesco Cataluccio

Rinchiusi in grandi parchi o abbattuti? Ora che la Russia ha mostrato il suo vero volto, nei paesi ex Urss cresce la voglia di cancellare i simboli del passato sovietico. Anche quelli dell’Armata rossa. Un’indagine

I monumenti funzionano da “sostituti simbolici” dell’odio e, per qualcuno, del rimpianto. Una memoria che comunque ha poco a che fare la verità storica. Da che mondo è mondo sono sempre stati oggetto di attacchi e distruzioni, in occasione di rivoluzioni, controrivoluzioni, cambiamenti del comune sentire o obbiettivi dello sfogo della rabbia di alcuni gruppi di persone. Facendo parte delle mille controversie e conflitti che caratterizzano la Storia, i monumenti sono destinati a essere abbattuti. Come ha ironicamente sostenuto Adriano Sofri: “E’ dovere dei governi e delle autorità pubbliche continuare e moltiplicare l’erezione di statue, in considerazione delle generazioni future. Le generazioni future non devono restare senza niente da abbattere. Innalziamo statue. Investiamo sull’avvenire in cui, più o meno remoto che sia, esse saranno abbattute o demolite o almeno traslocate in qualche periferia. E’ infatti un futile pregiudizio che si innalzino statue per assicurare un’immortalità: da 40 mila anni le statue servono solo a prolungare il tempo degli umani e specialmente dei più notabili e potenti fra loro. I quali, a differenza della moltitudine degli anonimi (almeno fino a quando non è stato universalizzato il quarto d’ora di notorietà) sono destinati a una doppia mortalità: prima in quanto corpi, poi in quanto statue” (A. Sofri, Anche le statue muoiono, nel Foglio del  29 giugno 2020).

 

Tutte le volte che passo dalla Stazione di Milano, sorta di brutta e pesante imitazione di una cattedrale babilonese, costruita nel 1931 come simbolo perfetto del gigantismo retorico fascista, non posso far a meno di notare che ancora sul tetto svetta la lupa romana e sono rimasti, forse perché troppo in alto per gli scalpellini antifascisti, alcuni dei numerosi e lugubri fasci littori che coprivano le pareti. Un amico architetto mi ha spiegato che sono stati mantenuti per “ragioni filologiche”. In realtà, la fine della dittatura italiana, per tanti motivi, non ha cancellato molte cose, nemmeno i nomi di alcune strade, come ad esempio via Amba Aradam, nel centro di Roma e in altre città, che ricorda uno di più orrendi massacri compiuti (con i gas asfissianti), in Etiopia, dall’esercito italiano comandato di Pietro Badoglio, nel febbraio del 1936.

 

Assai più radicale, e rapida, è stata la distruzione (o ricollocazione) delle statue, e il cambiamento dei nomi delle vie e piazze, simboli del passato, dopo la caduta del Muro di Berlino, in diverse repubbliche diventate ex sovietiche (come l’Ucraina e i paesi baltici), e nei paesi europei che erano stati sotto il controllo dell’Urss. Le immagini di Lenin e degli altri “eroi del socialismo” sono state o frantumate e portate via dai loro piedistalli e dalle pareti dei palazzi del potere (mi è capitato di scrivere delle “vicissitudini”, in una piazza di Varsavia, della statua di Feliks Dzierżyński, fondatore della famigerata Čeka, la polizia politica bolscevica, in un articolo dal titolo Il monumento a Felice pubblicato su Antinomie il 16 luglio del 2020). Mi sono sempre chiesto cosa avrà pensato allora l’ormai anziano spasimante della madre di una mia amica polacca che, negli anni Sessanta, si fece dodici anni di prigione per esser stato sorpreso, ubriaco, a pisciare sul piedistallo di una statua di Lenin, in una cittadina dalle parti di Cracovia.

 

Le statue di Stalin erano state abbattute già da tempo. Durante la rivolta di Budapest, nel 1956, una sua enorme effige di bronzo fu trascinata giù dalla folla e ne rimasero soltanto gli stivali attaccati al piedistallo. Poi la “destalinizzazione” fece il resto cancellando il dittatore con i baffoni, ad eccezione della natia Georgia (dove ancora se ne vedono, lasciate lì un  po’ per orgoglio patriottico, un po’ per ragioni turistiche). Anche le statue di Marx e Engels sono sono state tolte dai loro piedistalli: operazione resa più complicata dal fatto che spesso facevano parte di un unico grande blocco di pietra, per accentuare la loro unità ideologica. 

 

Quasi subito ci fu chi comprese che sarebbe stato uno spreco frantumare o rifondere quelle statue, e così nacquero i “parchi tematici” dove sono state raggruppate le statue dell’epoca comunista. Sempre meno persone ricordano bene chi fossero quei personaggi, ma così essi hanno l’opportunità di una nuova, e più tranquilla, vita, al riparo degli attacchi degli iconoclasti. Il primo di questi parchi  è stato il Memento Park, di Budapest. Nel 1991 l’Assemblea Generale di Budapest  decise di collocare tutte le statue rimosse in un museo all’aperto (e il progetto fu putroppo affidato all’assai enfatico architetto Ákos Eleőd). Il Parco venne inaugurato il 27 giugno 1993, in occasione del secondo anniversario del ritiro delle truppe sovietiche dal territorio ungherese. Ci sono 42 statue raffiguranti, oltre a Marx, Engels e Lenin, i principali leader comunisti ungheresi (soprattutto il capo della fallita Repubblica dei consigli del 1919 Béla Kun, che ha una faccia simpatica).

 

Quasi ogni paese ex sovietico ha il suo “parco delle statue”, anche se, dopo l’iniziale curiosità, i visitatori sono calati: molti preferiscono non rivedere certe immagini di un passato triste e i giovani dimostrano scarso interesse per simboli di una storia a loro sempre più estranea e della quale sanno sempre meno (tanto che in molti parchi hanno dovuto mettere delle targhette con brevi spiegazioni: “Karl Marx, 1818-1883, filosofo tedesco che scrisse Il Capitale…”). Nel 2001 l’imprenditore ed ex lottatore lituano Viliumas Malinauskas inaugurò il Parco Grūtas (all’interno del Parco Nazionale Dzūkija) vicino alla città di Druskininkai, a circa 130 chilometri a sud-ovest della capitale Vilnius. In questo parco, oltre alle 86 statue di 46 diversi scultori, si possono vedere anche ricostruzioni dell’universo dei campi di concentramento dei gulag sovietici: caserme, torri di avvistamento e filo spinato. Non proprio un posto dove trascorrere una mezza giornata di svago. Anche in questo parco, dopo l’iniziale successo, il pubblico dei visitatori è diminuito e sono sorti anche dei problemi con l’Associazione lituana del diritto d’autore, che chiede che il parco paghi i diritti ai sette artisti lituani che hanno scolpito alcune delle statue.

 

Proprio in Lituania, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha scatenato un’ondata di iniziative per rimuovere più radicalmente i segni del passato sovietico. Il Seimas (il parlamento lituano) ha elaborato un disegno di legge sulla “desovietizzazione” per accelerare non solo la rimozione di statue e monumenti, ma anche la modifica dei nomi rimanenti di strade e piazze che ancora ricordano l’era sovietica. Non è ancora chiaro quanti luoghi in tutto il Paese saranno interessati dalla legge (intitolata “Legge sul divieto di promozione dei regimi totalitari e autoritari e delle loro ideologie”, e che, se verrà approvata, entrerà in vigore il 1° novembre e dovrà essere attuata entro poco tempo). Il “Centro lituano di ricerca sul genocidio e la resistenza” (Lggrtc) e le autorità locali dovranno deidere chi non meriti tributi pubblici: è stato fatto il nome, ad esempio, dello scrittore Liudas Gira, che sostenne l’annessione della Lituania all’Unione Sovietica nel 1940, e al quale sono ancora intitolate 20 strade in tutto il Paese. “Quando si tratta di persone e scrittori famosi che hanno collaborato con il regime sovietico, non ci possono essere decisioni locali, ma devono essere valutati a livello politico nazionale”, ha affermato con buon senso Dainius Žalimas, preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Vytautas Magnus di Kaunas. “Una persona non può essere considerata un eroe, o una persona degna di essere onorata, in un comune e condannata in un altro”.

 

Comunque, non aspettando l’approvazione della legge, la scorsa settimana, l’amministrazione della città di Raseiniai, nella Lituania occidentale, ha fatto smantellare un monumento ai soldati dell’Armata Rossa che si trovava lì da circa 70 anni. Il sindaco di Raseiniai, Andrius Bautronis, ha però commentato: “Da quando abbiamo preso la decisione sulla demolizione dei monumenti in consiglio comunale, ci sono stati persino membri del consiglio che si sono espressi contro lo smantellamento. Immaginate cosa succederà quando inizieremo a deliberare la ridenominazione delle strade, quante emozioni si scateneranno? Sarebbe sicuramente un lavoro più facile se non stessimo tanto a discutere su personaggi che hanno collaborato con il governo [sovietico]”.

 

Sebbene la Lituania, come gli altri paesi dell’est, abbiano rimosso dalle piazze tutte le statue di Lenin, Stalin, Dzierżyński e compagni, subito dopo la riconquista dell’indipendenza, alcuni monumenti sovietici, per lo più commemorativi della Seconda guerra mondiale, tra i quali indicano quelli indicanti i luoghi di sepoltura dei soldati dell’Armata Rossa, sono stati lasciati in pace fino a oggi. Addirittura, alcuni di essi sono stati inseriti nella lista del patrimonio protetto, aggiungendo un’ulteriore impedimento ai tentativi di abbattimento. Ma oggi 26 comuni lituani si sono rivolti al dipartimento dei Beni culturali, chiedendo di rimuovere le protezioni sui monumenti sovietici per poterli abbattere. E già un monumento ai soldati sovietici è stato distrutto in un cimitero militare di Kaunas.

 

Questa è la pesante novità degli ultimi drammatici e avvelenati mesi. L’invasione russa dell’Ucraina e i massacri, le violenze e le ruberie compiute dai soldati russi hanno portato alcuni governi, e molti cittadini, a riconsiderare i monumenti che ricordano i soldati sovietici caduti durante la Seconda guerra mondiale. Anche dopo il 1989 questi monumenti non erano stati toccati: un po’ per motivi diplomatici (per non irritare eccessivamente i russi e la loro narrazione retorica sulla “grande guerra patriottica costata venti milioni di morti”), un po’ comunque per rispetto verso chi aveva perso la vita. Ma oggi, a partire dall’Ucraina (dove ormai, anche comprensibilmente, tutto quello che riguarda la Russia viene considerato Male: e questo è uno dei bei risultati della scellerata politica di Putin!), serpeggia all’est la voglia di rivedere una volta per tutte anche la storia e il ruolo di un esercito, l’Armata Rossa, che si presentò come liberatore dal nazismo (del quale, come nel caso della Polonia e dei paesi baltici, era stato inizialmente interessato complice), per imporre subito, e mantenere con la violenza, regimi oppressivi filosovietici. A Varsavia, da parecchi anni, due poliziotti stazionano in permanenza sul grande spiazzo con al centro l’obelisco dedicato al soldato sovietico. Servono a dissuadere gesti vandalici e scritte da parte di cittadini che associano i militari sovietici ai massacratori delle migliaia di ufficiali polacchi uccisi con un colpo in testa a Katyn.

 

Abbattere i monumenti, seppur tra polemiche ed emozioni, è in fondo la cosa più facile. Il problema, come sempre, è con cosa si sostituiscono. Nuove narrazioni, diverse memorie, nuovi eroi, si impongono. I vincitori preparano statue ed effigi diverse. Bisognerebbe però che si tenesse sempre presente, almeno dal punto di vista estetico, l’ammonimento del grande poeta Vladimir Majakovskij: “Non ha senso abbattere la statua dello zar per sostituirla con quella di un rivoluzionario, nello stesso stile”.