(foto di Olivier Darbonville su Unsplash)

continenti allo specchio

Mai come ora l'Europa può ritrovare l'unità spirituale smarrita

Ortensio Zecchino

La guerra ha fatto comprendere agli Europei che l'unione fa la forza. Dall'inizio delle ostilità ha trovato nuova linfa quella visione di un'unificazione politica del continente che naufragò con il rifiuto francese alla ratifica del trattato sulla Comunità europea della Difesa nel 1954

La guerra divide e unisce. Divide tragicamente i contendenti, ma genera moti d’imprevista unità all’interno di ciascun campo. L’aggressore si trincera sempre dietro la motivazione di dover allontanare con le armi le minacce alla propria integrità territoriale o spirituale. L’aggredito reagisce legittimamente con motivazioni specularmente opposte. I rispettivi popoli, intorno a queste motivazioni, rinsaldano l’unità interna. Sono incancellabili dalla memoria le immagini delle folle oceaniche plaudenti alla guerra nella Germania nazista e nell’Italia fascista, come indimenticabili sono quelle dell’eroica resistenza del popolo inglese, saldamente unito nei sacrifici imposti dalla guida carismatica di Churchill.

 

Quantunque manchino notizie certe, per la mancanza di libertà dei mezzi d’informazione, è fondato il convincimento che la sciagurata guerra di aggressione di Putin goda, purtroppo, di ampio consenso, non solo del popolo, ma anche dell’intellighenzia. Un popolo che, pur vivendo generalmente in condizioni non facili, si sobbarca a grandi sacrifici in nome di una guerra intesa come sacra, a difesa dell’integrità territoriale della Grande Russia, e come santa, a difesa delle tradizioni culturali e spirituali minacciate dal corrotto occidente, sentimenti questi che affondano le radici nella molto complessa storia russa e nell’ancestrale paura della disgregazione e dell’invasione esterna. Di tali sentimenti Putin, non casualmente in compagnia del patriarca Kirill, si fa interprete.

 

Al di sopra di ogni aspettativa si è rivelata l’unità del popolo ucraino che, nella resistenza all’aggressore, sta pagando prezzi altissimi, in nome dell’amor di patria. L’Europa solidarizzando con la nazione aggredita ritrova anch’essa un’imprevista unità che, tra l’altro,  promette di riportare in auge l’idea di creare un esercito comune, dopo 68 anni dalla mancata ratifica francese del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (Ced), firmato proprio a Parigi il 27 maggio 1952. Per quel primo risultato l’Italia di De Gasperi molto si era spesa (essendo presidente del Consiglio,  per seguire più da vicino la questione, lo statista trentino volle infatti assumere anche l’interim del ministero degli Esteri). Dopo la sua uscita dal governo, quando anche in Italia il trattato si andava impantanando in dispute nostrane, in una lettera a Fanfani, del 14 agosto 1954, De Gasperi scrisse: “Se le notizie che giungono dalla Francia sono vere, anche solo per metà, ritengo che la causa della Ced sia perduta e ritardato di qualche lustro ogni avviamento dell’Unione europea. Che una causa così decisiva e universale sia divenuta oggetto di contrattazione ministeriale proprio tra gruppi democratici e gruppi nazionalisti, che sognano ancora la gloria militare degli imperatori è veramente spettacolo desolante e di triste presagio per l’avvenire”. Cinque giorni dopo, il 19 agosto, De Gasperi morì. Sedici giorni dopo, il 30 agosto, il voto del Parlamento francese affossò definitivamente il sogno di realizzare la Comunità europea di difesa, prodromo dell’unità politica del Vecchio continente.

 

Da allora è passato più di “qualche lustro” e l’Europa è ancora ferma agli auspici. In questi 68 anni che ci dividono da quel lontano 1954, l’Europa è molto cambiata. Il benessere di vita dei suoi abitanti ha raggiunto livelli molto elevati, ma progressivamente si è venuto perdendo il collante culturale e spirituale capace di sorreggere ambiziosi progetti d’unificazione politica. Nei primi secoli del secondo millennio, l’Europa, divisa politicamente, era unita dalla lingua che, per governanti ed élite, era il latino; era unita dal diritto, che era il romano riscoperto e rielaborato nell’Università di Bologna e dalla religione, che per tutti era la cattolico-romana. Nel nostro tragico “secolo breve”, a guerra conclusa, con gli orrori per quanto patito, si risvegliò con forza la coscienza della comune appartenenza ad una civiltà che molto aveva dato al mondo intero.

 

Era allora ancora viva l’eco della voce di uno dei più autorevoli intellettuali del Novecento che, nel pieno della guerra,  si era levata per indicare una luce capace di dare speranza nel buio di quelle ore. Benedetto Croce, il filosofo non credente, il 20 novembre del 1942, 80 anni fa, aveva scritto infatti quel notissimo appello, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, nato in polemica con il saggio di Bertrand Russell, Perché non sono cristiano. Lo scritto di Croce si chiude con queste parole: “Serbare e riaccendere il sentimento cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza”. In apertura aveva scritto che era suo intento “unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani, e che questa denominazione è semplice osservanza della verità”. Era l’appello di un laico – “l’antipapa napoletano”, come Prezzolini  appellava Croce – a ritrovare nelle radici cristiane il lume per uscire dal buio di un’Europa, al tempo dominata dalla barbarie.

 

Qualche decennio dopo, un maldestro intervento della Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, contestando lo scritto del filosofo napoletano, quasi per rivendicare il copyright nell’uso dell’aggettivo “cristiano”, non fece altro che far risaltare ancor più il senso laico, universale e non confessionale dato da Croce a quell’aggettivo. Cristianesimo come sinonimo di civiltà occidentale, questo era e resta il suo grande messaggio. Ma, dopo ottant’anni,  questa “verità storica” affermata da Croce è nel mirino delle élite “progressiste” che si studiano di cancellarne ogni traccia (risparmio il lungo elenco che si potrebbe stendere, dal bando del Crocefisso, a quello, scongiurato solo per ora, del Buon Natale, a molte altre manifestazioni di cristianofobia, che speriamo non conducano anche alla revisione del computo degli anni della nostra era che parte dalla nascita di Gesù), con ciò stesso erodendo le ragioni dell’unità dell’Europa, che della civiltà cristiana è stata la culla. Tutto ciò in nome degli sbandierati sacri diritti di libertà e di eguaglianza che, malintesi, si risolvono nella negazione della storia stessa e nel trionfo di un neo-materialismo individualista ed edonistico e di un neo-scientismo sorretto dal potere della tecnica.

 

Sotto l’emozione della tragedia ucraina l’Europa sembra svegliarsi, sembra voler correre unita alle armi, ma prima che nelle armi dovrebbe saper ritrovare l’unità spirituale che sta perdendo, dovendo ben sapere che la “Santa Russia” resta unita, tristemente convinta della sua missione salvifica di esorcizzare con le armi quei demoni dell’occidente senz’anima evocati da Dostoevskij.