ANSA/FRANCO SILVI

Girotondo fogliante

I limiti dello stato laico

I simboli religiosi vanno espulsi dallo spazio pubblico, scuole comprese?  La presenza del crocifisso discrimina e vìola la libertà religiosa? Oggi la Cassazione darà le sue risposte. Si spera definitive

Oggi le Sezioni unite della Corte di Cassazione si pronunceranno sull’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche. Filippo Vari, professore di Diritto costituzionale nell’Università europea di Roma, ci racconta che “il caso nasce da un docente che all’inizio delle lezioni rimuoveva il Crocifisso, nonostante la sua esposizione fosse stata invece chiesta dagli studenti e dal dirigente scolastico, con uno specifico provvedimento. Per non aver rispettato tale provvedimento, al professore è stata irrogata la sanzione della sospensione da stipendio e funzioni per 30 giorni. Dopo aver perso il primo grado e in appello, il docente ha fatto ricorso in Cassazione. La sezione lavoro della Suprema Corte hanno rimesso la questione alle Sezioni unite della Cassazione, adombrando l’esistenza di una discriminazione a carico del docente a causa delle sue credenze.

 

La vicenda costituisce l’ennesimo capitolo di una saga che si trascina da 25 anni: il tentativo di superare in via giurisprudenziale l’esposizione del Crocifisso nei locali pubblici e, in particolare, nelle aule scolastiche imponendo, per tale via, il muro bianco.  Si è provato prima con il c.d. principio di laicità, ma Tar e Consiglio di stato hanno sottolineato che il Crocifisso è non solo un simbolo religioso, ma anche culturale. Si è provato, poi, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte di Strasburgo, però, ha ritenuto possibile l’esposizione del Crocifisso, sottolineando come potere pubblico e religione, pur tra loro opportunamente distinti – caposaldo della civiltà occidentale – hanno relazioni molto diverse negli stati europei. Falliti i due precedenti tentativi, si prova ora invocando il diritto antidiscriminatorio di derivazione Ue.

 

Lo stato laico deve espellere i simboli religiosi dallo spazio pubblico? La presenza del crocifisso discrimina e viola la libertà religiosa? E  questi simboli possono esprimere, al di là del loro significato religioso, valori che fanno parte del patrimonio storico della comunità  e nei quali si riconoscono credenti e non credenti ? Questo è il senso ultimo della questione che le Sezioni unite della Corte di cassazione affronteranno;  questione per la verità occasionata con qualche forzatura, partendo dal giudizio su di un provvedimento disciplinare nei confronti di un docente che aveva attaccato con espressioni vigorose il preside per avere disposto l’affissione del crocifisso nell’aula, in adesione alla richiesta degli studenti.

 

La questione sembrava chiusa dopo la sentenza emessa nel 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che nella sua composizione più elevata, la Grande Camera, aveva  ritenuto che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche delle scuole pubbliche  non violi la libertà religiosa e il diritto dei genitori a un insegnamento conforme alle loro convinzioni, e che pur essendo un simbolo di religioso, “appeso al muro è un simbolo essenzialmente passivo” al quale, tenuto conto del principio di neutralità dello stato, “non si può attribuire un’influenza sugli allievi paragonabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose”. Nel nostro caso verrebbe da aggiungere: figuriamoci se è può essere considerato idoneo a ferire la libertà dell’insegnante, nelle sue convinzioni o nelle sue credenze, e a vincolare o accreditare i contenuti del suo insegnamento.

 

Quanto al principio di laicità dello stato, un corretto inquadramento è stato offerto dal Consiglio di stato, che nel 2006 ha respinto la richiesta di un genitore di rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche.  Il crocifisso ha  “anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni”, essendo idoneo a esprimere “in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana” e trovano espressione nei principi fondamentali della Costituzione.  Questo è affermato anche nell’Accordo di revisione del Concordato, nel quale la Repubblica, con una autonoma dichiarazione che non ha carattere confessionale, constata  e  tiene conto  “che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”.

 

In conformità all’art. 2 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, lo stato “nel campo dell’educazione e dell’insegnamento deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento in modo conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche”.  Questo dà titolo a essi, e con essi agli studenti, di pronunciarsi anche sulla presenza del crocifisso, in un clima di rispetto e di tolleranza, senza che sia sollecitato, richiesto né tanto meno imposto alcun atto di adesione o devozione. Come ha bene illustrato Joseph Weiler, professore alla New York University e in precedenza direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Istituto universitario europeo di Firenze, in un intervento pubblicato nel Forum di Quaderni Costituzionali (2, 2021) con il titolo  Verso “Lautsi-bis”? Il crocifisso scolastico (di nuovo) a giudizio, se la laicità viene considerata “come una visione del mondo secondo cui lo stato è secolare, intendendo con ciò che non può esserci una manifestazione ufficiale di religione da parte di autorità pubbliche e in spazi pubblici. Non è più “neutrale” o “imparziale” di quanto lo fosse il vecchio stato confessionale”. E per quanto riguarda il nuovo “caso”, “la condotta dell’insegnante mira a reintrodurre uno stato confessionale, la cui religione è la laicità imposta a tutti, allo stesso modo in cui un tempo s’imponeva la cristianità”.

 

In definitiva c’è da chiedersi se il ricorso alla Corte di cassazione tende a difendere la libertà di fede o credenza, oppure è diretta a garantire una affermazione dell’intolleranza.

 

Prof. Cesare Mirabelli,
presidente emerito della Corte costituzionale

 

***

 

Se si deve garantire la neutralità assoluta rispetto alla religione, ci si deve orientare verso l’abolizione totale della simbologia religiosa ovunque esposta. In questo modo, la definitività della scelta abolizionista (o negazionista) avrebbe ragione su qualsiasi ipotesi subordinata. A guardar bene, coloro che si oppongono all’esibizione del simbolo coltivano, dentro di sé, l’ispirazione all’abolizionismo integrale.

 

Tuttavia, nessuno si è veramente soffermato sulle conseguenze che deriverebbero da una tale scelta, di una gravità unica. Ne deriverebbe la perdita di significato di tutta la simbologia religiosa mondiale, la cancellazione e umiliazione di sentimenti, tradizioni, identità collettive che interessano nazioni, Stati, intere aree geografiche e culturali. Si dovrebbero cancellare, in occidente, tutti i crocifissi o simboli di analoga sostanza, mentre in oriente dovrebbero essere offuscate le statue di Buddha, d’ogni derivazione, e ogni altra simbologia legata alla Tradizione induista, islamica, dei Sikh.

 

Si arriverebbe a un oscuramento globale capace di stravolgere l’architettura, la conformazione religiosa, culturale, delle identità nazionali formatesi nella storia. Tuttavia, il diritto vivente dona visibilità ai momenti, agli eventi, ai valori spirituali attraverso i quali si evolve la storia degli individui, degli stati, delle comunità, e proprio il rapporto tra simbolismo e rispettive identità storiche, nazionali, religiose, legittima la presenza dei segni negli spazi pubblici.

 

Abolire i simboli religiosi di un paese, addirittura dell’Europa intera e perfino del mondo, sarebbe come se andassimo ad ammirare una splendida galleria rinascimentale (ma qui si tratta di tutti gli stati della Terra) e se la notte prima una mano avesse scolorito le tinte, annacquato gli sguardi, sfocato i lineamenti dei soggetti ritratti, delle loro gesta. Noi non ammireremmo più i personaggi e le idee che trasmettono vita interiore, forza e debolezza, e riflettono la storia da cui provengono: li vedremmo trasformati in pallide ombre dell’Ade che si avviano verso un destino malinconico senza che nessuno le possa riconoscere.

 

Il punto cruciale, che è culturale e diviene poi giuridico è questo, l’Europa, i popoli, gli stati che compongono la comunità internazionale non sono e non possono divenire ombre dell’Ade: essi vogliono mantenere e arricchire il patrimonio di religiosità, di cultura e idealità, con i rispettivi colori, con i loro simboli, le loro immagini, senza perdere nulla di ciò che vi è di buono, parlando al mondo un linguaggio di speranze e di libertà.

 

Ogni tesi giuridica drasticamente negazionista/abolizionista nei confronti della simbologia religiosa (o d’altro tipo, secondo le situazioni) è contraria ai principi e alle norme ordinamentali attualmente vigenti; soprattutto viola la base del diritto positivo che non può fungere da strumento distruttivo delle identità popolari e nazionali e non può essere posta base di sentenze esse stesse (per così dire) negazioniste/abolizioniste.

 

Prof. Carlo Cardia,
docente emerito di Diritto ecclesiastico,
Università degli studi di Roma Tre

 

***

 

Uno, nessuno, centomila. Così può riassumersi, prendendo a prestito il titolo del romanzo pirandelliano, l’acceso dibattito che negli ultimi decenni investe la questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. In particolare, l’esposizione del crocefisso nelle aule della scuola pubblica italiana evidenzia la contrapposizione tra diverse interpretazioni del principio di laicità in rapporto alla tutela della libertà religiosa.

 

I sostenitori della neutralità dei luoghi pubblici considerano la presenza di simboli religiosi una lesione dell’eguale libertà della coscienza dei credenti e dei non credenti. In tal senso, la rimozione del crocifisso rappresenterebbe la realizzazione di quella che è stata definita una “laicità per sottrazione”. L’eguaglianza delle coscienze si ritiene tutelata dalla asettica neutralità della parete bianca, con una netta separazione tra la sfera pubblica, che in quanto tale deve essere espressione di valori condivisi da tutti, anche dai non credenti, e opzioni valoriali di matrice religiosa, su cui si struttura la coscienza fideistica, che si esplicano pienamente nella sfera privata. Il rapporto tra diritto pubblico e religione si declinerebbe, pertanto, in una tutela della libertà anche di non credere o di religiosità diverse dalla cattolica.

 

A questa posizione, si contrappone quella “multireligiosa” che propone di esporre accanto al crocefisso, simbolo cattolico, anche i simboli di altre religioni, espressioni della pluralità di sensibilità di fede. Una scuola pubblica interculturale che come in una sorta di Pantheon sia rappresentativa della inclusione delle differenze in materia religiosa. Una questione che si muove sul piano giuridico sul crinale tra tutela tra l’eguaglianza tra le diversità e principio di non discriminazione. E difatti l’elemento nuovo che si innerva nella discussione giuridica sulla “rimozione del crocefisso”, come si evince dall’ordinanza di rimessione della sezione Lavoro della Corte di Cassazione alle Sezioni unite, è rappresentato dal potenziale carattere discriminatorio per motivi religiosi del provvedimento di un dirigente scolastico che ha sanzionato un docente il quale sistematicamente rimuoveva il simbolo religioso dalla parete per la sola durata delle proprie lezioni, nonostante la volontà contraria degli studenti, deliberata a maggioranza dall’assemblea di classe.

 

In attesa della decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, la cui pronuncia è prevista per oggi, sembra opportuno sottolineare come la invocata “rimozione temporanea” del crocefisso da parte del docente in conformità al proprio convincimento (ateo) in materia religiosa costituisca il nuovo banco di prova, dal punto di vista giuridico, della effettiva tutela del pluralismo dei valori nella scuola pubblica. In tal senso, anche la parete bianca e priva di ogni simbolo religioso sembra esprimere una neutralità solo apparente e delinea un modello probabilmente estraneo alla declinazione italiana del principio di laicità, volto a garantire la libertà di tutte le coscienze in materia religiosa.

 

Prof.ssa Maria d’Arienzo,
ordinario di Diritto ecclesiastico, Università degli Studi di Napoli “Federico II”

 

***

 

La questione all’attenzione delle Sezioni unite ha un’evidente derivazione lavoristica, che forse avrebbe potuto restare in tale ambito se non avesse prevalso la convinzione, se non l’auspicio, che la rivisitazione dell’intera problematica dell’affissione del Crocifisso nelle aule scolastiche – sulla quale sono scorsi fiumi d’inchiostro, e che trovano una significativa sintesi nel sistematico uso della minuscola nell’ordinanza del Supremo Collegio, a parte l’uso della maiuscola nei testuali richiami alla risalente legislazione in materia – possa incidere sui termini della controversia, e forse ribaltare una linea di faticoso equilibrio. Va subito rilevato che, nonostante gli inevitabili collegamenti, la questione in corso è ben distinta da quelle dei casi Tosi e Lautsi.

 

Il cuore della questione – una volta escluse dalla stessa ordinanza le ipotesi di discriminazione diretta o di molestie – sta nella prospettazione di una discriminazione indiretta ex art. 2, c. 1, lett. b d. lgs n. 216/03, che si configura in qualunque atto “apparentemente neutro che possa mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre”. Sull’intrigante espressione “apparentemente neutro”, così come sulla legittimità dell’ordine di servizio in relazione al vigente ordinamento scolastico, si rinvia alle riflessioni svolte da altri in questa stessa pagina: certo è che discriminazione si ha solo se si determina, in comparazione ad altri, una “situazione di particolare svantaggio”. In termini obiettivi – e, dunque, non rimessi a valutazioni meramente soggettive, se deve cercarsi, come auspica il Supremo Collegio, un equilibrio fra i valori in campo – svantaggio è situazione comportante una minore probabilità di successo, un danno, un’inferiorità: per di più, “particolare”, e non qualsiasi. In un passaggio dell’ordinanza si fa riferimento alla condizione di dover svolgere l’attività didattica in nome del crocifisso, che dunque da simbolo passivo per gli allievi (caso Lautsi) diventerebbe un peso “particolare” per il docente. Se la semantica ha un valore, questa prospettazione dello svantaggio, nel concreto, è poco credibile. A ben guardare, qui si può al più parlare di “disagio”, come condizione psicologica di ben minore intensità, identificabile in termini di sgradevolezza, sia pure per motivi morali, ma non certo interdittiva della capacità di svolgere liberamente l’insegnamento.

 

L’approccio lavoristico induce a svolgere anche qualche riflessione sulla possibile valenza, ai fini del decidere, del noto art. 2087 cod. civ., intitolato alla “tutela delle condizioni di lavoro” (su di esse reagisce anche il d. lgs. n. 216/03) che evoca la tutela della personalità morale del lavoratore: un lavoratore che pronuncia “frasi irriguardose nei confronti del dirigente scolastico”, ancorché non contestate (ordinanza § 10.1) evidenzia una personalità morale che non sembra bisognosa di particolari misure di tutela.

 

Pasquale Sandulli,
già ordinario di Diritto del lavoro, Sapienza Università di Roma

 

Di più su questi argomenti: