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Atenei italiani a prova di Cina

Un docente a contratto, Chen Zhen, si rivolge in mandarino a un suo alunno. “In futuro ci potrebbero essere enormi cambiamenti sulla situazione di Taiwan”. Parla della “riunificazione”

Giulia Pompili

Un prof. cinese del Politecnico di Milano dice a un suo studente che non può dirsi taiwanese. Ma propaganda e censura sono solo un pezzo della gigantesca influenza di Pechino dentro alle università italiane. Un’inchiesta

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Nel pieno della guerra d’invasione russa in Ucraina, altri paesi autoritari impongono la loro visione del mondo e fanno propaganda all’interno dei confini di paesi democratici, perfino in quei luoghi in cui in teoria sarebbe garantito il libero pensiero: le accademie e le università. Questo tipo di propaganda è solo una parte della storia, e ne abbiamo viste le conseguenze in questi giorni in cui il partito dei russofili è riuscito a influenzare il dibattito italiano. La propaganda dei paesi autoritari che si inserisce dentro alle università e alle accademie, nei circoli intellettuali e imprenditoriali, è soltanto un minuscolo pezzetto di un sistema ben più ampio il cui obiettivo è bucare il sistema di protezione della sicurezza nazionale con la propria influenza, soprattutto economica. E’ il modello cinese, che non riguarda soltanto i controversi istituti Confucio.

 

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Da qualche giorno è diventato virale il video di un docente a contratto del Politecnico di Milano, Chen Zhen, titolare del corso “Architettura e città in Cina” del dipartimento di Architettura, che durante una lezione online si rivolge a un suo studente e gli suggerisce di non scrivere di essere di “Taipei, Taiwan”. “Vorrei parlare di una cosa con Wang”, dice il docente in inglese, la lingua in cui è tenuto il suo corso, durante un incontro da remoto con gli studenti stranieri di un gruppo di lavoro. “Questa cosa non interessa i due studenti iraniani quindi parlerò in cinese con lo studente Wang”. Chen Zhen passa quindi al mandarino: “Studente Wang, ti devo parlare di una cosa che non riguarda la tesi. Te lo devo dire in cinese, tra noi due”, dice con tono calmo e però da una posizione di autorità, “ho notato che hai consegnato la tesi, vi ho inviato un modulo da compilare e vi ho chiesto di indicare la nazione e il luogo della vostra provenienza, e nei tuoi dati personali hai scritto ‘Taipei, Taiwan’. La prima cosa che voglio dirti è che tutta l’Unione europea considera Taiwan parte della Repubblica popolare cinese, nessun governo in Europa riconosce pubblicamente Taiwan come una nazione indipendente. La seconda cosa è che la vostra Costituzione non dichiara l’indipendenza di Taiwan”. Dopodiché il docente a contratto Chen Zhen inizia con le espressioni più usate dai funzionari di Pechino quando si tratta della delicata questione taiwanese: “Taiwan è soltanto una regione, e non una nazione indipendente”, dice il docente. Questo “non ha a che fare con il tuo punteggio”, sottolinea, “ma essendo un cinese mi sento in dovere di fare questo chiarimento. Non ti sto minacciando in quanto docente, vorrei solo avere un dialogo con te”. Insomma Chen Zhen sta “semplicemente” dando un consiglio a quello che considera un altro cittadino cinese, dal momento che “nel prossimo futuro ci potrebbero essere enormi cambiamenti sulla situazione di Taiwan”, riferendosi in modo  chiaro a quella che i funzionari di Pechino chiamano “l’inevitabile riunificazione” di Taiwan con la Cina. 

 

Su un punto il professor Chen Zhen ha ragione: nessun paese europeo, oggi, riconosce formalmente la Repubblica di Cina, ovvero Taiwan. Ma la questione riguarda appunto la formalità delle relazioni diplomatiche. Dal punto di vista pratico, però, Taiwan (e il suo governo) è riconosciuta dai paesi democratici come un’entità indipendente de facto. In questi anni il governo di Taipei si è sempre allineato a quelli democratici, per esempio durante la pandemia, e più di recente condannando l’invasione russa e ponendo sanzioni molto dure contro Mosca – mentre la Repubblica popolare cinese continua con la sua strategia dell’ambiguità. Insomma, Taiwan è parte effettiva della nostra alleanza democratica e i tentativi di Pechino di forzare la “One China Policy”, la politica dell’unica Cina, addirittura cancellando l’esistenza stessa di Taiwan andrebbero condannati. Soprattutto perché negli ultimi mesi le provocazioni e le pressioni militari cinesi attorno all’isola si sono addirittura intensificate, e pure le punizioni che Pechino infligge contro i paesi che scelgono di avere un rapporto privilegiato con Taiwan, come la Lituania. 

 

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In questo contesto, le frasi pronunciate da un docente del Politecnico di Milano a uno studente taiwanese – un consiglio molto politico sull’abbandonare la sua identità taiwanese e abbracciare quella cinese, considerata quella “giusta” – sono inquietanti.  Ma non sono un caso isolato, perché già l’autocensura funziona benissimo quando si parla di Taiwan: la scorsa settimana, al Bologna Children’s Book Fair, dalla mostra personale dell’illustratrice taiwanese Pei-Hsin Cho è stata cancellata la parola “Taiwan” (dalla fiera ci fanno sapere che c’era scritto Taiwan e però “era sbagliato, bisognava scriverci Taipei. Abbiamo rifatto i cartelloni ma non sono arrivati in tempo”). La fiera del libro per bambini di Bologna è parte del network di eventi di cui fa parte anche la China Shanghai International Children’s Book Fair, e non c’è quindi da stupirsi se si utilizzano metodi drastici per non urtare la sensibilità dei visitatori cinesi. 

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Piuttosto le parole del professor Chen Zhen al suo studente taiwanese ci ricordano la gigantesca influenza che la Repubblica popolare cinese si è costruita negli anni all’interno delle università italiane, per cui il caso del docente sembra quasi una inevitabile conseguenza di un’apertura mai messa sotto controllo da nessuno.   Su sollecitazione del Foglio, il Politecnico di Milano fa sapere che è stata attivata “la procedura interna volta a verificare il rispetto del Codice Etico e di Comportamento”.  Il ministero dell’Università, a cui il Foglio ha chiesto un commento, risponde via email che “il ministero è in raccordo con il Politecnico di Milano in merito a quanto successo”. E sembra quasi che il dicastero guidato dalla ministra dell’Università e della ricerca, Maria Cristina Messa, voglia evitare di dare una risposta politica alla presenza della Cina nelle università italiane. “Le attività di collaborazione e scambi per la formazione superiore e la ricerca sono, da sempre, un importante strumento di diplomazia scientifica, di crescita per studenti, ricercatori, dottorandi e professori e, di conseguenza, per il paese”, scrive al Foglio il ministero. “E’ questo lo spirito che da sempre ha guidato, e guida, l’apertura verso una maggiore internazionalizzazione degli atenei italiani. Cultura, ricerca, formazione e scienza sono tra i più potenti strumenti di dialogo”. Già qualche mese fa, contattato dal Foglio sull’opportunità di mantenere i rapporti dei nostri atenei con gli Istituti Confucio, le uniche istituzioni di promozione di lingua e cultura che si inseriscono e finanziano direttamente le nostre università, il ministero aveva risposto citando l’articolo 33 della Costituzione, ultimo comma (“Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”).

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Però il problema è ben più complesso di un semplice: le università si finanziano come vogliono. Ed è un problema di natura politica. 


Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Università e della Ricerca e della Farnesina, il Politecnico di Milano, dal 2010 a oggi, ha firmato  65 accordi con università della Repubblica popolare cinese.  Per fare un paragone, il Polimi ne ha soltanto 16 con università degli Stati Uniti. La passione per la Cina da parte del politecnico milanese ha portato alla creazione del China-Italy Design Innovation Hub con la Tsinghua University (prima sede fuori dai confini cinesi della Tsinghua), del campus italo-cinese con l’Università Tongji di Shanghai (che permette di ottenere una doppia laurea), e del Joint School of Design and Innovation Centre con la Xi’an Jiaotong University, la prima sede fisica del Polimi fuori dai confini italiani. Nel settembre del 2019, sei mesi dopo l’ingresso nella Via della Seta dell’Italia, fu l’allora ambasciatore in Cina Ettore Sequi, oggi segretario generale della Farnesina, a inaugurare la sede italiana nella città cinese di Xi’an, accompagnato dal presidente del Polimi Ferruccio Resta. 

 

Se da un lato bisogna di certo credere alla buona fede di alcune collaborazioni tra università (pure se altrove, dall’America all’Europa, anche quelle sono oggetto di scrutinio da parte dei garanti della libertà accademica), di sicuro più controversi sono i finanziamenti delle aziende cinesi nelle università italiane.  Negli ultimi anni diversi governi in Europa, in America e nel Regno Unito hanno chiesto agli atenei di chiudere i rapporti di collaborazione con aziende come Huawei e Zte, perché a fronte di particolari e ingenti finanziamenti la conseguenza potrebbe portare a “scambi di conoscenze indesiderate”, e potenziali problemi dal punto di vista della sicurezza nazionale e degli interessi economici. In Italia le università – e il ministero dell’Università – hanno ignorato certi segnali, anzi. Il Politecnico di Milano ha un rapporto privilegiato con il colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei, e nel 2019 è  nato il Joint Lab, un laboratorio congiunto dove il Politecnico e Huawei sviluppano ricerca avanzata per le tecnologie “sul 5G/6G, radar veicolare, connettività e rete wireless veicolare”.  Alla fine del 2020 Umberto Spagnolini, professore ordinario del Polimi e direttore del Joint Lab tra Huawei e Politecnico, “è stato insignito da Huawei del titolo di Huawei Industry chair, che gli consente di fare ricerca congiunta per i prossimi dieci anni su argomenti di alto valore industriale oltre che scientifico. In particolare, Spagnolini sarà impegnato nella ricerca per sistemi wireless beyond 5G ad alta frequenza”. 


In sostanza, mentre il governo di Mario Draghi rafforza lo strumento del Golden power per mettere in sicurezza i cloud e le reti internet, le università, le accademie e i centri di ricerca, cioè le eccellenze italiane, lavorano a strettissimo contatto, se non proprio direttamente finanziati dai colossi legati al governo della Repubblica popolare cinese. L’episodio del docente a contratto Chen Zhen, che fa propaganda per conto di Pechino a uno studente in Italia, è solo l’ultimo esempio di un problema molto più profondo e che riguarda l’università italiana e i suoi rapporti con l’autoritarismo della Repubblica popolare cinese. Per il ministero dell’Università, però, è soltanto “diplomazia scientifica”.  

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