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Lontano da Kabul

Tra le montagne del Nangarhar si scorgono chiari gli obiettivi e la brutalità del ministro dell’interno Haqqani

Cecilia Sala

Viaggio nelle terre dell’uomo che si occuperà della sicurezza per i talebani, oggi al governo provvisorio del paese

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Kabul. Il Nangarhar è quella provincia afghana su cui piovono droni americani appena Joe Biden finisce di dire che gli Stati Uniti sanno dove sono i responsabili dell’attentato all’aeroporto di Kabul. La vendetta per la morte di tredici soldati americani e di quasi duecento civili afghani il 26 agosto non era un piatto da servire freddo. Il bersaglio sono i miliziani dell’Iskp, lo stato islamico in Afghanistan, che si trovano nella provincia del Khorasan e su queste montagne del Nangarhar verso il confine con il Pakistan. La certezza che li abbiano “trovati e puniti”, però, non c’è ancora. Nel recente passato, ogni volta che un un drone americano colpiva in quell’area si diceva che avesse eliminato uno dei principali esponenti della rete Haqqani. Eppure sono vivi e non si sono mai sentiti meglio. Sono entrati per primi a Kabul il giorno di Ferragosto e questo dà loro un potere contrattuale che sanno come far pesare all’interno della galassia talebana. Sono i padroni dell’est, e il loro capo – Sirajuddin Haqqani – si è appena seduto comodo sulla poltrona di ministro dell’Interno nel nuovo governo provvisorio. A lui adesso spetta la repressione delle proteste e delle insurrezioni delle minoranze, le perquisizioni in casa dei civili afghani sospettati di aver collaborato con gli occidentali che – nonostante i proclami – continuano. Sarà lui a decidere come organizzare la polizia e i controlli per evitare le feste in casa e i balli.

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Kabul. Il Nangarhar è quella provincia afghana su cui piovono droni americani appena Joe Biden finisce di dire che gli Stati Uniti sanno dove sono i responsabili dell’attentato all’aeroporto di Kabul. La vendetta per la morte di tredici soldati americani e di quasi duecento civili afghani il 26 agosto non era un piatto da servire freddo. Il bersaglio sono i miliziani dell’Iskp, lo stato islamico in Afghanistan, che si trovano nella provincia del Khorasan e su queste montagne del Nangarhar verso il confine con il Pakistan. La certezza che li abbiano “trovati e puniti”, però, non c’è ancora. Nel recente passato, ogni volta che un un drone americano colpiva in quell’area si diceva che avesse eliminato uno dei principali esponenti della rete Haqqani. Eppure sono vivi e non si sono mai sentiti meglio. Sono entrati per primi a Kabul il giorno di Ferragosto e questo dà loro un potere contrattuale che sanno come far pesare all’interno della galassia talebana. Sono i padroni dell’est, e il loro capo – Sirajuddin Haqqani – si è appena seduto comodo sulla poltrona di ministro dell’Interno nel nuovo governo provvisorio. A lui adesso spetta la repressione delle proteste e delle insurrezioni delle minoranze, le perquisizioni in casa dei civili afghani sospettati di aver collaborato con gli occidentali che – nonostante i proclami – continuano. Sarà lui a decidere come organizzare la polizia e i controlli per evitare le feste in casa e i balli.

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E’ lui responsabile, visto che fin dalla presa del potere ha gestito la sicurezza della capitale, anche del trattamento riservato ai giornalisti locali che seguono le manifestazioni: quelli del quotidiano Etilaatroz sono stati interrogati e torturati, sono stati rilasciati solo per essere trasportati direttamente in ospedale. Per conoscere meglio Sirajuddin Haqqani bisogna andare nei territori che controlla. Mentre il ministro, fresco di nomina, sceglie la tappezzeria da portare nel suo nuovo ufficio di Kabul, a Jalalabad – il capoluogo del Nangarhar – ci accoglie la famiglia di Ahmad, un funzionario del vecchio governo alleato degli occidentali che era scappato durante le evacuazioni ma che è tornato per convincere i genitori e i fratelli a lasciare il paese (sua moglie e i suoi figli sono già al sicuro). Per raccontare la spietatezza degli Haqqani non è necessario andare molto indietro nel tempo, agli attentati perpetrati negli anni Duemila, all’alleanza con i “vecchi” talebani alla fine degli anni Novanta o prima, quando il padre dell’uomo a cui è appena stata affidata la sicurezza del paese era un mentore di Osama bin Laden. Basta ascoltare la famiglia di Ahmad che racconta ciò che è successo qui poche settimane fa, quel 19 agosto in cui si è festeggiata – forse per l’ultima volta – l’indipendenza dell’Afghanistan. 

Solo due giorni prima c’era stata la conferenza stampa dei talebani in cui gli “studenti coranici” giuravano di essere cambiati. Poco dopo sarebbe arrivata la loro intervista a Newsweek in cui dicevano che il “cambiamento climatico” è un’emergenza “dell’umanità intera”, che si tratta di una priorità anche per loro e che sono pronti ad affrontarla tutti insieme. Il fratello di Ahmad esce in strada, ha con sé la bandiera dell’Afghanistan che i talebani non tollerano perché vogliono veder sventolare soltanto la propria. E’ insieme a un suo amico che insegna nel liceo della città, attraversano il bazaar e raggiungono il punto di ritrovo scelto per le celebrazioni. Poco dopo arrivano i talebani che sparano per disperdere la folla, ma non è in quel momento che il fratello di Ahmad viene ammazzato. “Lo hanno fucilato dopo, nel vicolo alle nostre spalle che avete percorso con l’auto, mentre tornava a casa da noi”, racconta suo padre. Il 19 agosto, insieme a lui, sono morti un giornalista, un impiegato del liceo, il suo amico professore e quattro suoi studenti. Poche sere più tardi, un avvocato che la famiglia di Ahmad conosceva bene e che lavorava a Jalalabad per gli uffici del governo viene trascinato fuori di casa con la forza e giustiziato in strada.

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Così fanno gli uomini di Haqqani, rispettati e temuti nell’est. I racconti sono degli altri fratelli maschi e del padre di Ahmad. La madre – visto che sono accompagnata da due uomini – non può mostrarsi e mangiare con noi il pranzo che ci ha preparato. In questa provincia, le manifestazioni delle donne non ci sono state. Non siamo a Kabul, ma in una roccaforte talebana, e qui non è mai arrivata nessuna messa in scena da “svolta diplomatica”. Mentre si mangia lo stufato e il riso kabuli palaw, la televisione è accesa su Tolo News. Quando compare la replica dell’intervista esclusiva data al network afghano dal segretario di Stato americano Antony Blinken, il più giovane dei fratelli si alza per spegnere la tv. La questione adesso è quanto potere avrà la rete Haqqani nel futuro dell’Afghanistan in mano ai talebani. Washington la considera una pericolosa organizzazione terroristica e l’Fbi ha da tempo messo una taglia sulla testa di Sirajuddin Haqqani: in teoria, se gli porti il ministro dell’Interno, ti danno dieci milioni di dollari. Anche nel mondo talebano sono molti quelli che non lo amano, in particolare si dice questo del mullah Baradar, il nuovo vice primo ministro che ha negoziato gli accordi di pace con gli americani a Doha facendosi fotografare con l’ex segretario di stato dell’Amministrazione Trump, Mike Pompeo. C’è una rivalità storica che è culminata con l’uscita degli Haqqani dal Consiglio – la Shura di Quetta – nel 2007 (salvo poi rientrarci nel 2015), e una competizione che contrappone il pragmatismo di Baradar all’intransigenza di Haqqani. Ma oggi la sua rete ha in mano il ministero dell’Interno, domina gli apparati di sicurezza e addestra le forze speciali come la brigata Badri 313, mobilitata negli snodi strategici di Kabul come l’aeroporto internazionale e nella lotta all’Iskp. Se la sicurezza e il controllo del territorio servono più di ogni altra cosa ai talebani per legittimarsi, la rete Haqqani è già riuscita a posizionarsi laddove si diventa imprescindibili, forse intoccabili.

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