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11 settembre, vent'anni dopo

L'America, noi e i frammenti di uno specchio rotto

Micol Flammini

L’intellettuale Adam Michnik ci racconta perché bisogna ancora avere fiducia  nell’occidente, che non tramonterà finché preserverà  la sua invenzione più grande: la democrazia

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Se c’è da parlare di Stati Uniti e di Europa, delle ferite delle nostre democrazie, di come siamo cambiati, di come dobbiamo curarci, Adam Michnik è la persona giusta, perché conserva rispetto e amore per quello spazio di libertà che è l’occidente. Michnik, intellettuale e fondatore della Gazeta Wyborcza – il quotidiano di riferimento dell’opposizione liberale, atlantista ed europeista in Polonia – ha conosciuto bene la dittatura, ama moltissimo la libertà e soprattutto la democrazia. L’11 settembre del 2001 era in Germania a ritirare un premio con altri due personaggi simbolo della lotta della Polonia contro la dittatura comunista, il giornalista Tadeusz Mazowiecki e l’economista Leszek Balcerowicz. “Abbiamo appreso la notizia dell’attacco terroristico dalla televisione, abbiamo visto così le prime immagini. Ho chiamato la redazione e ho dettato un articolo che mi fluiva veloce dalla testa. Dettando avevo la consapevolezza che quel giorno, in quell’11 settembre, iniziava davvero il Ventunesimo secolo, così come il Ventesimo era incominciato con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando”. Ogni epoca ha il suo inizio traumatico, ogni nuovo secolo nasce da una ferita, che non si capisca mai se sia un sintomo del cambiamento oppure il suo inizio. 

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Se c’è da parlare di Stati Uniti e di Europa, delle ferite delle nostre democrazie, di come siamo cambiati, di come dobbiamo curarci, Adam Michnik è la persona giusta, perché conserva rispetto e amore per quello spazio di libertà che è l’occidente. Michnik, intellettuale e fondatore della Gazeta Wyborcza – il quotidiano di riferimento dell’opposizione liberale, atlantista ed europeista in Polonia – ha conosciuto bene la dittatura, ama moltissimo la libertà e soprattutto la democrazia. L’11 settembre del 2001 era in Germania a ritirare un premio con altri due personaggi simbolo della lotta della Polonia contro la dittatura comunista, il giornalista Tadeusz Mazowiecki e l’economista Leszek Balcerowicz. “Abbiamo appreso la notizia dell’attacco terroristico dalla televisione, abbiamo visto così le prime immagini. Ho chiamato la redazione e ho dettato un articolo che mi fluiva veloce dalla testa. Dettando avevo la consapevolezza che quel giorno, in quell’11 settembre, iniziava davvero il Ventunesimo secolo, così come il Ventesimo era incominciato con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando”. Ogni epoca ha il suo inizio traumatico, ogni nuovo secolo nasce da una ferita, che non si capisca mai se sia un sintomo del cambiamento oppure il suo inizio. 

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“Ero scioccato, ho anche parte della mia famiglia che vive a New York, ricordo di quel giorno la sensazione di aver percepito quanto il mondo si fosse capovolto. Mi sono accorto che i princìpi storici tradizionali che avevano dominato il Diciannovesimo secolo e che, nonostante le difficoltà, sono durati anche nel Ventesimo, si erano frantumati”. Quell’11 settembre, dice Michnik, si è rotto lo specchio, e da quei frammenti è nato il Ventunesimo secolo. “L’attacco a New York ha cambiato le nostre scelte e i nostri destini. Le scelte personali e quotidiane e i destini nazionali e umani”. E’ nata una nuova politica, una nuova società. “Le divisioni storiche a cui eravamo abituati, conservatori e liberali, destra e sinistra, hanno smesso di essere dominanti. Al loro posto era subentrato un altro modo di sentire e di percepire il presente in cui le divisioni erano fomentate da una società chiusa, totalitaria, costruita sul fanatismo e l’intolleranza, su un nazionalismo religioso”. Dalla rottura dello specchio si sono fatti largo i populismi. “Totalitarismi, populismi, fanatismi sono tutti basati non sulla forza degli argomenti, ma sull’argomento della forza”. L’11 settembre è stato il momento in cui esclusioni e divisioni si sono imposte. Come fosse un quadro, in quel momento, dice l’intellettuale polacco, è stato possibile vedere che tutto era cambiato. “La politica dell’esclusione aveva preso il posto di quella dell’inclusione, e poi è quest’ultima che crea la possibilità di migliorare la società, che crea la prospettiva di un mondo senza violenza, senza terrorismo”. 

 

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La Polonia nel 2001 non era ancora parte dell’Unione europea, ci sarebbe entrata tre anni dopo, ma già la nazione sapeva bene – meglio di ora – a quale mondo volesse appartenere, da quali valori voleva essere guidata, e si era accorta che in qualche modo erano stati messi in pericolo dall’attacco alle Torri gemelle. Varsavia, fieramente europeista, anche se ancora non nell’Unione, convintamente atlantista, anche se ancora non nella Nato, ha sempre visto negli Stati Uniti una garanzia di sicurezza e di protezione. Michnik, assieme ad altri, è il simbolo di questi ideali e dopo l’attacco né lui né la Polonia hanno smesso di avere fiducia nell’America, con tutti i valori che portava con sé. “Abbiamo capito che si poteva far male anche agli Stati Uniti, certo ancora non avevamo chiare le conseguenze di quella ferita”. I postumi li viviamo oggi, dice l’intellettuale. Sono stati la vittoria di Donald Trump. I postumi sono i nazionalismi in Unione europea. “I frammenti dello specchio rotto dell’11 settembre sono ovunque, non importa se di destra o di sinistra, sono i segnali di un mondo che ha iniziato a credere nelle divisioni e nel fanatismo, nell’intolleranza, nella violenza e nelle bugie”. 
L’occidente si è ritrovato in un mondo stravolto, in cui era lui, l’Europa ma soprattutto l’America, quello diventato improvvisamente vulnerabile e debole. Abbiamo cercato le cause della debolezza e del malessere, le cause della ferita, della rottura dello specchio, ci siamo detti che ormai eravamo arrivati al tramonto della nostra società. Al tramonto dell’occidente. Adam Michnik non ama quest’espressione per il semplice fatto che non crede che le cose stiano così. L’occidente non è tramontato, il nostro tramonto arriverà quando non ci sarà più spazio per la democrazia, quando la rinnegheremo. “La democrazia ha sempre avuto delle minacce, i suoi nemici, le crisi sono normali, non sono certo la fine. Servono a farla evolvere. La democrazia è la cosa migliore che l’umanità abbia mai pensato, e non è finita”. 
Michnik alla democrazia ha dedicato la vita, ha dedicato la sua attività intellettuale e anche un giornale che oggi come motto riportato sotto alla testata ha ben scritto “non c’è libertà senza solidarietà”. E vive in uno dei paesi europei in cui la democrazia è più a rischio, in cui la maggioranza politica che guida la Polonia sembra aver dimenticato i princìpi per cui ha combattuto. Un altro frammento  dello specchio rotto. 

 

Ora che dopo vent’anni siamo qui a raccogliere tutti i pezzi, sembra che le divisioni di cui parla Michnik siano sempre più profonde. Anche l’America sembra essersi persa nel mezzo delle sue fratture, ma anche per lei, ci dice l’intellettuale, non è il tramonto. Vederla diventare trumpiana ha fatto male a chi, come lui, credeva nell’America, perché improvvisamente sembrava così diversa dal paese “cui eravamo abituati a rivolgerci perché era la più grande e forse la più importante democrazia che faceva parte della coalizione contro i totalitarismi. Era un’altra America”. L’America sfigurata sembrava aver ripreso i suoi lineamenti con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, ma il ritiro scombussolato e disastroso dall’Afghanistan ha messo tutti davanti alla stessa domanda: l’America è ancora in grado di fare l’America? Per Michnik è presto per trarre le conseguenze, il ritiro da Kabul è troppo recente, “ma il paese di Biden non è certo lo stesso proposto da Trump e dall’attacco banditesco al Campidoglio. Ha altri obiettivi, un’altra lingua. Non ci sono dubbi che l’America abbia fatto degli errori sia in Afghanistan sia in Iraq. Il primo è stato non capire che con la forza si buttano giù le dittature, ma non si tirano su le democrazie”. E’ un’America che deve ritrovare il suo posto, ma che continua a essere la democrazia più importante, senza la quale è quasi impossibile immaginare la possibilità di creare una coalizione di democrazie. 

 

Non è infallibile, non è inscalfibile, e anche nel suo rapporto con noi, gli europei, abituati a credere in lei tanto da sentirci disorientati senza, ha fatto degli errori. “Non può trattare i suoi alleati sempre da fratello maggiore, siamo partner, alla pari. Solo trattando gli alleati in questo modo, l’alleanza ha senso e futuro”. Chissà se basta guardarsi in questo specchio rotto per fidarsi di nuovo dell’America, di noi stessi, dell’occidente e di ciò che ha di più caro: la democrazia. 

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