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Il racconto di un reporter in fuga

Vent'anni in Afghanistan non sono stati abbastanza

Francesco Gottardi

Dall’estero, un giornalista di Kabul osserva il suo paese e ci racconta come sta implodendo ora che i talebani hanno preso il comando: mantenere ancora la “presenza occidentale sarebbe stato d’aiuto” 

Lo chiameremo Mohammad: il nome fittizio l’ha scelto lui. “Per motivi di sicurezza, perché oggi io sono al riparo in un paese dell’Asia centrale ma tutta la mia famiglia si trova ancora a Kabul”. Il collasso afghano raccontato da un giovane reporter: “Ho lasciato la mia casa qualche mese fa, quando Biden doveva ancora giurare da presidente. Non avrei mai immaginato, e nessun altro attorno a me, che la situazione sarebbe degenerata così rapidamente”.

 

Il dramma è sotto gli occhi del mondo. C’è consenso bipartisan sulla disastrosa gestione della ritirata occidentale. Dove sia andata in fumo la ventennale ‘missione di pace’ e come ne abbiano approfittato i talebani, invece, è una dinamica da ricostruire con chi l’ha vissuta. Negli anni, tra le macerie e una costellazione di etnie: “L’immagine della disperazione è la nostra gente che si aggrappa agli aerei in volo, pur di scappare dagli integralisti. Mentre dall’altra parte c’è un esercito governativo fiacco, che ha lasciato campo libero”, nonostante una superiorità numerica di 4:1 sul nemico. “Sono le due facce dell’Afghanistan”.

 

Prima considerazione, forse spiazzante per le democrazie: “Tutto sommato stavamo meglio nel decennio 2001-2011”, quello dell’offensiva Nato, “rispetto a quello appena concluso”, tra negoziati e presunta ricostruzione. “Negli ultimi tempi si percepiva un lento ma inesorabile peggioramento delle nostre tutele e condizioni di vita”, spiega Mohammad. “Non abbiamo smesso di contare migliaia di morti, fra civili e soldati. A Kabul i giornalisti e i lavoratori delle organizzazioni internazionali sono diventati un bersaglio frequente dei guerriglieri. Eppure, tutto è avvenuto nel crescente silenzio della comunità internazionale”.

 

Fino alla grande fuga. “Altri due o tre anni di presenza occidentale in Afghanistan sarebbero stati d’aiuto”, questo lo dice piano, a denti stretti, come se gli costasse immaginare uno scenario ormai irrealizzabile. “La nostra classe politica andava consolidata. È acerba. E soprattutto continua a riflettere la frammentazione tribale del paese: pashtun, tagiki, hazara, uzbeki. Chiunque entrasse nell’Assemblea nazionale si limitava a fare gli interessi del popolo di appartenenza, secondo corrotte logiche di spartizione e tensioni reciproche per il potere. Non c’è mai stata una visione d’insieme dell’Afghanistan. Questo gli americani non l’hanno capito”.

 

I talebani invece sì. “Vedere le nostre forze armate cedere così in fretta, a partire dai comandanti in capo, è la conseguenza di queste fragili istituzioni. Un fatto che ha abbattuto ogni speranza fra i nostri cittadini. E al contempo galvanizzato i talebani. Compatti, in missione”. Non è con i grandi numeri, ma con quelli giusti, che il nuovo ordine si è fatto strada verso Kabul: “Oggi c’è chi acclama i conquistatori? No, nel complesso. Ma l’Afghanistan è un insieme di minoranze”, continua Mohammad. “I pashtun, nelle regioni sudorientali al confine con il Pakistan, sono il gruppo etnico più consistente”, circa il 40 per cento della popolazione totale. “E al suo interno i talebani hanno un certo successo, tra ideologia integralista e identità dei clan. La capitale invece è un crocevia di popoli, a maggioranza tagika e quindi contraria al loro dominio. Per non parlare del nord del paese: verso l’Uzbekistan jihadismo quasi zero. Anche se sta iniziando a trovare rinforzi fra le altre etnie”.

 

Ora cambierà tutto. O forse è già successo: “Tutta la popolazione è stata presa alla sprovvista dal precipitare degli eventi. Fino a una settimana fa lasciare il paese era ancora possibile, ma non credevamo di essere davvero all’ultima chiamata”, e nemmeno l’intelligence americana, che il 14 agosto dava alla capitale almeno un mese di vita. “Siamo sotto shock. Tutti”. I pensieri di Mohammad sono ancora a Kabul: “Ogni giorno la mia famiglia mi tiene aggiornato sulla situazione, ogni giorno temo di ricevere brutte notizie. Oppure di non riceverne più: presto magari i talebani toglieranno anche internet”. Più che una resa è un reset.

 

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