reportage

Vale la pena opporsi a Teheran?

Cecilia Sala

Tra gli iraniani meno obbedienti c’è poca voglia di resistere al governo dell’appena arrivato e durissimo Raisi, almeno farà il deal sul nucleare e torneranno a circolare un po’ di soldi. Reportage dopo le elezioni

E’ una prima volta. Nemmeno la metà degli iraniani è andata a votare e non sono mai stati così pochi da quando esiste la Repubblica islamica. Alcuni seggi della capitale erano già deserti a mezzogiorno, in quello di Hosseineh Ershad c’erano più giornalisti che elettori, si sbagliavano e si scambiavano per locali nel tentativo di intervistarsi a vicenda. L’affluenza è sempre stata una paranoia delle istituzioni islamiche e della stessa Guida Suprema, a questa tornata però non è venuto neanche un guizzo dell’ultimo momento — una finzione apparentemente clamorosa — per risvegliare i dormienti alla vigilia del voto. Stanchi anche i vertici.

Non è Teheran il posto in cui si può capire il prossimo presidente dell’Iran Ebrahim Raisi, non a caso proprio in questi giorni per la sua città, Mashhad (la stessa della Guida Suprema Ali Khamenei), è stato coniato il soprannome di “capitale nascosta”. Si trova a est, verso il confine con il Turkmenistan e con l’Afghanistan. E’ lì il popolo dei capi ed è da quel punto sulla mappa che si irradia il potere in Iran. Fino a due anni fa Raisi era alla guida di una delle Fondazioni del clero di Mashhad che, insieme quelle dei pasdaran, formano lo “Stato parallelo” che tiene in pugno l’economia del paese, dall’industria al petrolio alle politiche assistenziali. La Fondazione degli oppressi e dei disabili da sola gestisce più risorse del ministero delle Finanze. Quella che ha governato Raisi, la Astan Quds Razavi, ha un patrimonio di venti miliardi, è proprietaria di aziende e compagnie assicurative e pure della licenza per produrre la Coca Cola nel paese. E’ per questo che, ascoltando il neoeletto tuonare che “i problemi dell’economia non sono soltanto le sanzioni”, che la sua priorità sarà “combattere la corruzione degli apparati”, anche a qualche giornalista della tv di stato viene da sorridere.

Il popolo che ha eletto Raisi si estende verso sud, dalla città santa di Qom giù nei villaggi del deserto fino a Kherman, dov’è c’è la tomba del generale Qassem Soleimani. È la Repubblica islamica e si prega prima di votare, o dopo, o si vota mentre gli altri pregano. Tutto in moschea oppure nel cimitero dov’è sepolto l’eroe nazionale, in mezzo alle tombe dei “martiri” della guerra contro l’Iraq che ha formato la Repubblica. Il popolo di Raisi è in realtà il popolo che gli è stato affidato artificialmente, con un’operazione in laboratorio. La verità è che dell'ayatollah-magistrato non sa quasi nulla neanche chi dice di averlo votato con convinzione. Al suo seggio nel quartiere popolare di Shahr-Rey, le donne in fila sono molte più degli uomini. Nessuna indossa l’hijab con la frangia scoperta e i capelli che scendono sulla schiena, sono tutte in chador, il velo lungo e scuro. Se chiedi di lui, il loro presidente per i prossimi quattro anni — o otto, visto che nessuno finora è mai rimasto in carica per meno di due mandati — qualcuna non sa neppure il suo nome per esteso e tutte, appena possono, cambiano argomento. Parlano del figlio che non ha i soldi per sposarsi, del riso che da due anni e mezzo costa il quadruplo, del governo riformista che ha sbagliato tutto, del marito impiegato con quattro figli e un solo stipendio sull'orlo di una crisi di nervi. Qualcuna sa dirti che Raisi non è nato ricco, che suo padre è morto quando lui era piccolo, che è obbediente.

Forse lo ha scoperto qualche sera fa, perché appena prima del silenzio elettorale la televisione di stato ne ha approfittato per mandare in onda un documentario sulla vita del candidato favorito, il beniamino della Guida. L’ayatollah ultraottantenne malato da sempre, ma che è stato dato per morto troppe volte troppo presto. Sappiamo che l’età avanza, che ha un tumore alla prostata che però si può tenere sotto controllo. Che zoppica, ma a votare è andato senza bastone: un segnale. Si dice che abbia problemi cardiaci e poi l’acqua nei polmoni. Tutto l’Iran si chiede cosa sarà dopo di lui, non escludono che possa addirittura cambiare l’assetto istituzionale del paese, con una riforma costituzionale lasciata come eredità dalla Guida: “Chissà se avremo ancora un presidente”. L’altra domanda è se il suo posto lo prenderà Raisi, ma quelli che studiano la politica e la insegnano all’Università (ai più è stato sconsigliato di incontrare la stampa straniera, ma qualcuno accetta di parlare off the record) lo descrivono come l’uomo perfetto per prendere gli ordini, non per darli. Raisi non ha la furbizia né il carattere del capo. Teme la folla, i teleobiettivi e i conflitti, non sa gestirli, a lui piace fare i compiti e venire premiato dai superiori. Il figlio della Guida, Mojtaba Khamenei, invece avrebbe tutte le carte in regola. È brillante, conosce gli uomini e la macchina, si muove con scioltezza nell’ufficio del padre. Ma Mojtaba come rahbar — colui che esercita il potere supremo per conto del messia atteso dagli sciiti — non si può fare. “E’ una Repubblica, la monarchia è in esilio, si è fatta la Rivoluzione”. Di padre in figlio non si può.

E i riformisti che faranno? “Si sono messi in frigorifero”. I riformisti non servono a niente. Quelli che avrebbero avuto qualche chances di battere Raisi, come il ministro degli Esteri Javad Zarif, non ci hanno neanche provato per “senso di opportunità”. Quelli che hanno boicottato le elezioni anche questa volta nell’illusione che fosse la volta buona, eppure l’affluenza al 48 per cento è un dato pessimo ma non la disfatta agognata. Quelli che nonostante il voto blindato a favore del conservatore, si sono appellati agli iraniani affinché andassero ai seggi. Come l’esponente più autorevole, l’ex presidente Mohammad Khatami, che non parla in pubblico quasi mai ma per darsi la zappa sui piedi lo ha fatto. Sono stanchi anche loro, divisi o arresi, e decimati. Avevano preso 22 milioni di voti nel 2001 e quasi 24 milioni di voti nel 2017, a queste elezioni non sono arrivati neanche alla soglia dei due milioni e mezzo. 


Al politecnico di Teheran c’era un gruppo di studenti a cento metri dall’ingresso del seggio, fermavano conoscenti e compagni di corso, ci parlavano sottovoce, chiedevano a tutti di tornare a casa e boicottare le elezioni. Non hanno i numeri e la forza per fare più di questo, di Onda verde e studenti in strada pronti a farsi massacrare come nel 2009, quando bruciavano le immagini di Ahmadinejad nelle piazze, non si parla. “I nostri coetanei non sono i giovani di dodici anni fa. È una generazione diversa, forse un po’ più chiusa in sé stessa e di certo meno idealista. La verità è che negli ultimi tempi qui siamo diventati tutti più cinici”. Sperano in un’inchiesta internazionale sul nuovo presidente per crimini contro l’umanità, dall’accordo sul nucleare non sanno cosa aspettarsi. Non possono credere che Raisi sia così fortunato da vedere sollevate le sanzioni proprio nel momento della sua transizione al potere. Dall’altra parte sono convinti che in questo disastro economico non ci sia spazio per le loro istanze. Finché la maggioranza degli iraniani avrà come unica preoccupazione l’aumento dei prezzi, adesso che anche le famiglie dell’upper middle class di Teheran contano le banconote prima di andare al mercato, la politica dei princìpi suona come aria fritta. Siamo nei vicoli a nord della capitale, Milad Maboudi — montatura degli occhiali Persol sottilissima e un po’ hipster — è un architetto di trent’anni, uno dei pochi ad essersi messo in fila per votare riformista al seggio di Jamaran. “Nessuno è soddisfatto di questi otto anni di governo, ma l’idea che boicottando le elezioni possa succedere qualcosa è un’ipotesi che sentiamo ogni volta, poi non succede mai niente. Io sono qui per il poco di buono che ha fatto Rohani. Il nostro problema è la sfortuna”. Che c’entra la sfortuna? “Lui, per quel che poteva, voleva aprire all’Occidente. Lo volevamo anche noi, ma gli astri dell’Iran e degli Stati Uniti non sono destinati a incontrarsi. Il suo mandato e quello di Obama si sono sovrapposti per un breve periodo, hanno fatto l’accordo ed è arrivato Trump. Ma tutta la nostra storia è così, se la guardi in parallelo: c’è il riformista Khatami e allora arriva Bush, poi Obama ma qui si insedia l’ultraconservatore Ahmadinejad. Finalmente Rouhani, ma serve a poco: ecco Trump. Adesso che c’è Biden, qui tornano i conservatori e un uomo cupo come Raisi”.

Però la linea la detta la Guida suprema, non il presidente. L’Iran ha bisogno di tornare all’accordo più di qualunque altra cosa e se cambieranno i toni (forse) non cambiano gli obiettivi. Nel suo primo discorso pubblico da presidente eletto, all’auditorium di Shahid Behesti, Raisi mette subito le mani avanti. “La mia politica estera non inizia e non finisce con il Barjam (l’accordo sul nucleare), non esistono solo gli Stati Uniti e l’Europa”, infatti Putin è stato il primo leader internazionale a congratularsi con lui per la vittoria. Dell’ipotesi di estenderlo, l’accordo Jcpoa, non se ne parla. I missili balistici e il finanziamento delle milizie sono considerati un asset strategico e un’arma di ricatto necessaria alla stessa sopravvivenza della Repubblica islamica. Dopo le affermazioni di rito però, arriva il pragmatismo: “Se gli Usa faranno la loro parte, noi siamo pronti a un ritorno completo e immediato”. Dal ministero degli Esteri filtra che sia già tutto pronto, che alla delegazione iraniana i documenti vadano bene così come sono. Ci si ricama un po’ sopra, si perde un po’ di tempo solo per star dietro ai giochi della comunicazione politica. Non è difficile capire perché, da queste parti non c’è neanche più la rabbia che si incontrava un anno e mezzo fa, dopo i funerali di Soleimani e in coincidenza con l'anniversario della Rivoluzione, quando la vendetta sembrava una priorità. Era l’inizio di febbraio, dopo pochi giorni alla crisi economica si sarebbe aggiunta la pandemia. Adesso se parli di strane esplosioni e cyber attacchi alla centrale nucleare di Natanz o dell’operazione per assassinare lo scienziato pasdaran Mohsen Fakhrizadeh, ti dicono che è meglio sistemare prima l’inflazione. Pensa questo persino un ex comandante dei Guardiani della rivoluzione come Hossein Kanani. Il suo ufficio è sottoterra, le pareti sono tappezzate con le foto del gruppo di giovani ingegneri voluti da Khomeini di cui faceva parte, con quelle in elicottero insieme a Soleimani, poi c’è il disegno incorniciato del sottomarino che ha progettato e le bandiere di Hezbollah (in Libano), Jihad islamico (nella Striscia di Gaza), e degli sciiti afghani della brigata Fatemiyoun (in Siria). Quella offerta dagli iraniani al governo di Kabul per “combattere i talebani”, cioè per estendere la propria influenza a est. Kanani ci gira intorno per un po’ mentre fa sciogliere lo stecco di zucchero in cristalli nel tè: “E’ vero che siamo andati di persona da Nasrallah in Libano per mettere in chiaro, dopo Fakhrizadeh, che noi adesso abbiamo bisogno di calma”. Per Raisi, sarebbe davvero il massimo la fine della sanzioni appena insediato. Gli eventi giocano a favore del primo presidente dell’Iran che entra in carica sanzionato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti per le trentamila esecuzioni capitali che ha ordinato. Entrambe le parti hanno interesse a chiudere in fretta, prima dell’insediamento all’inizio di agosto. Biden soprattutto per non dover avere a che fare con uno così. Una fonte dell’amministrazione americana ha detto ai giornalisti di Axios che sarebbe “molto preoccupante” se i colloqui si trascinassero fino ad agosto. Dall’altra parte, anche Khamenei ha fretta, vuole proteggere il pupillo dall’incontro (virtuale) con la nazione che ha così spesso apostrofato “Grande Satana”. 


In un paese congelato e rassegnato, dove tutto va esattamente come previsto, sembra esserci solo una scheggia impazzita. L’ex presidente Ahmadinejad è l’unico a fare un po’ di casino, e visto che non c’è nient’altro che meriti attenzione, tutti si interrogano. 
Aveva provato a candidarsi a queste presidenziali ma il Consiglio dei guardiani presieduto dalla Guida lo ha escluso. Ha detto che non avrebbe votato per protesta, perché i candidati non erano “quelli che il popolo avrebbe voluto eleggere”. Ha aggiunto che gli apparati di sicurezza iraniani sono infiltrati dagli israeliani, ma nessuno si occupa della questione. E’  impazzito? Disperato? Ha in mente qualcosa? “Ho detto solo quello che è sotto gli occhi di tutti”. Lo incontriamo nel suo studio a Teheran, negli scaffali ci sono i libri di Heidegger e di Ahmad Fardid, un altro filosofo che gli è sempre piaciuto, quello secondo cui l’Iran è la nazione “nichilista ed eroica” per eccellenza. Quella mattina l’agenzia FarsNews, legata al corpo dei Guardiani, aveva messo in apertura un fotomontaggio dell’ex presidente tra gli eredi dello scià e i leader del MEK, i Mujahedin del Popolo considerati un gruppo terroristico, quelli che dopo la Rivoluzione i pasdaran hanno ammazzati a migliaia. Le è andato di traverso il caffè? “E’ solo la stampa”. Non è la stampa, sono i pasdaran e lui lo sa benissimo. Cosa sta facendo? “Dico la mia, anche sulla corruzione. Non basta impiccare i ladri per essere un paladino della lotta alla corruzione, i ladri ci saranno sempre. E’ necessario cambiare il nostro sistema, le strutture che così come sono la corruzione la favoriscono”. Guarda un po’. Ma la cosa interessante è che le sue parole sembrano il ritratto di Raisi, anche se quando gli chiediamo se si stesse riferendo allo strapotere delle Fondazioni del clero e dei pasdaran preferisce non rispondere. Ahmadinejad è stato un populista ante litteram, Khamenei in quella fase aveva bisogno di uno così, i due però sono in rotta ormai da molto tempo. Quello che ci si domanda adesso è se queste siano le sparate di un giullare di corte o piuttosto se dietro le critiche ci sia un qualche — sia pur disperato — tentativo politico. Per esempio quello di risvegliare i dormienti, i “senza scarpe”  o “mustafazin”. I protagonisti delle proteste della benzina alla fine del 2019, quelle represse nel sangue che hanno fatto quasi duemila morti: l’ultimo momento di conflittualità che si sia visto a queste latitudini. Con loro Ahmadinejad ha un’affinità elettiva dai tempi della sua prima campagna elettorale, quando ha inaugurato il turbo populismo, ha innovato il linguaggio violento e promesso lo Yaraneh, il reddito di cittadinanza per tutti. Se fai il suo nome oggi in Iran, dalla bocca dei conservatori sentirai soprattutto questa frase: “Parla come un israeliano, è schietto. Nessun persiano ha mai conosciuto la schiettezza”.