Il ministro degli Esteri iraniani Javad Zarif all'assemblea generale dell'Onu (foto John Moore/Getty Images) 

Al voto in Iran siamo sempre in cerca del moderato di turno

La commedia del ministro Zarif spiega bene la natura del potere (e delle elezioni) a Teheran

Tatiana Boutourline

Si stanno per chiudere le liste per il voto di giugno. Nel sistema iraniano coesistono due regimi: il deep state delle forze di sicurezza e dell’intelligence, in costante dialogo con la Guida Suprema, e uno stato debole fatto di funzionari autorizzati a parlare con l’occidente  

Nel suo memoir “Undaunted”, l’ex direttore della Cia John Brennan descrive l’accordo nucleare con Teheran come uno strumento essenziale tanto alla stabilizzazione del medio oriente, quanto al rafforzamento dei moderati in Iran. Brennan, come la gran parte degli analisti, identifica i moderati nelle figure del presidente Hassan Rohani e del suo ministro degli Esteri, Mohammed Javad Zarif. Perché ogni decade rivoluzionaria ha propagandato la lotta fratricida tra falchi e colombe, conservatori e riformisti, principalisti e appunto, moderati e, in parallelo, all’interno di questo scontro permanente, ogni decade rivoluzionaria ha saputo sfornare uomini che, con alterne fortune, sono riusciti a incarnare un’idea di cambiamento, la transizione a una specie di “khomeinismo light”. Così, a ogni tornata elettorale, gli osservatori sperano di trovare un Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un Mohammed Khatami, un Mir Hossein Moussavi, in cui riporre le loro speranze. Che si definiscano realisti, pragmatici, riformisti, o da Rohani in poi, soprattutto moderati, l’idea è che questi siano gli uomini del dialogo, se non della trattativa e, che per questo motivo, vadano tutelati, dagli altri – populisti, neofondamentalisti e pasdaran arrembanti –  che  rappresentano, a diverso titolo, lo schieramento dell’intransigenza.  

 


Ora, tra queste personalità “dialoganti”, la più visibile sulla scena internazionale dal 2013 a oggi è stata senza dubbio quella di Javad Zarif. Diplomatico di lungo corso, di casa a New York e tra i corridoi dei più prestigiosi think tank, all’epoca della sua investitura Zarif fu salutato come un ramoscello d’ulivo teso alle cancellerie occidentali, e la stampa è tutta un florilegio di encomi. Henry Kissinger che lo ha trovato “intelligente, cortese e disciplinato”, Dmitri Simes, presidente del Nixon Center, che lo ricorda come “uno dei diplomatici più abili che io abbia mai conosciuto” e Joe Biden, quando l’uno era ancora un senatore del Delaware e l’altro il plenipotenziario iraniano al Palazzo di vetro, che ha commentato: “È un osso duro, ma è anche un uomo pragmatico. Può giocare un ruolo importante nel risolvere pacificamente le nostre significative divergenze”. 

 


Ma è solo l’inizio, l’ascesa nel pantheon dei moderati raggiunge l’acme con la chiusura dell’accordo nucleare, è il tempo in cui lui e John Kerry si danno del tu, il tempo in cui in Iran costruiscono statue in suo onore e lo accolgono come un misto tra un rockstar e l’eroico ministro riformatore dei Qajar, Amir Kabir. Un successo che ad un certo punto ha persino fatto immaginare una staffetta tra Rohani e Zarif.


Per un po’ ci hanno creduto persino i riformisti, orfani di idee e di elettori. “Quello che vuole è un compromesso all’interno del sistema per promuovere delle riforme economiche e sociale per salvare il paese dalla povertà e dalla debolezza. È meglio che l’Iran non sia uno stato democratico in senso occidentale, ma uno stato prospero”. Zarif pareva l’uomo giusto, stimato da Khamenei, ben introdotto in occidente, portatore insomma di un perfetto moderatismo à la carte.


Senonché dietro alle quinte la stella di Zarif ha iniziato ad attutirsi. un po’ per il fatto che Donald Trump ha rinnegato il deal e che l’annunciata rinascita economica si è arenata ancor prima di cominciare e un po’ perché i “moderati” sono spendibili finché servono. Se cambia il clima, se non producono i dividendi auspicati, qualcuno tarpa loro le ali. Come funziona lo ha spiegato lo stesso Zarif nel corso di una lunga conversazione con l’economista Said Leilaz. Nell’intervista, nata con l’intento di documentare la storia iraniana attraverso la voce dei protagonisti e che stando all’ufficio di Zarif non avrebbe mai dovuto essere divulgata, il ministro degli esteri parla con rabbia e frustrazione della sua impotenza dinnanzi al potere di Qassem Suleimani.


Le candidature

La pubblicazione della registrazione ha scatenato un putiferio: accuse di alto tradimento, richieste di impeachment. Rohani lo ha difeso, l’Ayatollah Khamenei, senza nominarlo, l’ha redarguito. E poi sono partite le voci: secondo alcuni non c’è alcun dubbio che siano stati i pasdaran a rubare l’audio, secondo altri il colpevole è proprio Zarif che ha tentato di giocare alla vittima in vista di una candidatura alle presidenziali. E’ talmente vanesio che da mesi va sostenendo di non essere interessato alla poltrona di Rohani sussurrano e, invece, ci tiene al punto da scommettere tutto. 


Quale che sia la verità, mercoledì Zarif ha confermato che non si presenterà alle elezioni, che si terranno il 18 giugno. La lista delle candidature da presentare al ministero dell’Interno si chiuderà il 15 maggio e poi sarà inviata al Consiglio dei Guardiani che inizierà il suo processo di “vetting”: come si sa, in Iran non ci sono delle elezioni, ma delle selezioni. Tra i nomi  ci sono anche dei famosi del passato, come l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad. Ma al di là delle candidature e del futuro stesso del ministro Zarif, l’aspetto più interessante della vicenda che lo ha riguardato è quello che rivela della natura del potere khomeinista. L’analista del Carnegie Endowment, Karim Sadjadpour, lo ha spiegato diffusamente in un articolo pubblicato sull’Atlantic. Nel sistema iraniano coesistono due regimi: il deep state delle forze di sicurezza e dell’intelligence, in costante dialogo con Khamenei, che uccide, costruisce installazioni nucleari, sopprime il dissenso, foraggia milizie, sequestra ostaggi, pescherecci e nave straniere; e uno stato debole organizzato attorno a ministri, burocrati, funzionari, autorizzati a parlare all’occidente e a blandirlo, questi ultimi, di volta in volta si prestano a negare o a difendere le attività del deep state, di cui spesso, peraltro vengono a conoscenza per ultimi. Il deep state seguiterà a esercitare il potere senza alcun controllo popolare, mentre lo stato debole, continuerà proprio come Zarif e ogni altro “moderato di turno” a lamentare la sua impotenza.
 

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