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Armati contro i social

L’Ue vorrebbe un approccio coordinato ma per le leggi sulle piattaforme c’è chi va per conto suo

Micol Flammini

In Ungheria e Polonia c’è chi non vuole fare la fine di Trump e pensa a leggi per tutelarsi contro quella che chiamano censura deliberata delle piattaforme

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Roma. L’assalto al Congresso americano del 6 gennaio scorso è diventato uno spartiacque, una di quelle date in cui ci si è iniziati a porre domande e a soppesare parole dette e soprattutto scritte  sui  social. Il 6 gennaio è  iniziata una battaglia che per tanti governi ha messo Twitter,  Facebook e simili in cima alle priorità. Ma questa battaglia non è uguale per tutti. Da una parte c’è chi ha capito quanto il tema della diffusione di radicalizzazione ed estremismo sui social  sia diventato impellente  e chi invece, soprattutto tra i grandi estimatori di Donald Trump, ha iniziato a parlare di  libertà di parola e ha deciso di organizzarsi per fare in modo che quanto avvenuto all’ex presidente americano non possa accadere a loro. In Europa si sono dimostrati particolarmente sensibili all’eliminazione di Trump da Twitter e Facebook, due stati: Ungheria e Polonia, che hanno annunciato la decisione di adottare delle misure nei confronti delle società di social media per combattere contro quella che loro chiamano censura  deliberata. La prima a  muoversi è stata Varsavia, che già a metà gennaio aveva proposto un disegno di legge per multare le piattaforme che eliminano post o  bloccano account seguendo criteri diversi da quelli della legge polacca. Il primo ministro Mateusz Morawiecki, senza menzionare Trump, aveva scritto su Facebook che gli algoritmi e i proprietari delle piattaforme non dovrebbero decidere quali opinioni sono giuste e quali no:  “La censura – ha scritto – è   tipica   dei regimi totalitari e autoritari e ora sta tornando sotto forma di un nuovo meccanismo commerciale per combattere coloro che la pensano in modo diverso”. 

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Roma. L’assalto al Congresso americano del 6 gennaio scorso è diventato uno spartiacque, una di quelle date in cui ci si è iniziati a porre domande e a soppesare parole dette e soprattutto scritte  sui  social. Il 6 gennaio è  iniziata una battaglia che per tanti governi ha messo Twitter,  Facebook e simili in cima alle priorità. Ma questa battaglia non è uguale per tutti. Da una parte c’è chi ha capito quanto il tema della diffusione di radicalizzazione ed estremismo sui social  sia diventato impellente  e chi invece, soprattutto tra i grandi estimatori di Donald Trump, ha iniziato a parlare di  libertà di parola e ha deciso di organizzarsi per fare in modo che quanto avvenuto all’ex presidente americano non possa accadere a loro. In Europa si sono dimostrati particolarmente sensibili all’eliminazione di Trump da Twitter e Facebook, due stati: Ungheria e Polonia, che hanno annunciato la decisione di adottare delle misure nei confronti delle società di social media per combattere contro quella che loro chiamano censura  deliberata. La prima a  muoversi è stata Varsavia, che già a metà gennaio aveva proposto un disegno di legge per multare le piattaforme che eliminano post o  bloccano account seguendo criteri diversi da quelli della legge polacca. Il primo ministro Mateusz Morawiecki, senza menzionare Trump, aveva scritto su Facebook che gli algoritmi e i proprietari delle piattaforme non dovrebbero decidere quali opinioni sono giuste e quali no:  “La censura – ha scritto – è   tipica   dei regimi totalitari e autoritari e ora sta tornando sotto forma di un nuovo meccanismo commerciale per combattere coloro che la pensano in modo diverso”. 

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A occuparsi della parte legislativa in Polonia è stato il viceministro della Giustizia, Sebastian Kaleta, che ha presentato una bozza per la quale  gli utenti bloccati potranno fare ricorso a un organismo, il Consiglio della libertà di parola. Se il consiglio stabilirà che i post sono stati oscurati  ingiustamente o gli utenti bloccati senza motivazioni conformi alla legge polacca, può multare i social. In Ungheria è il ministro della Giustizia, Judit Varga, a essersi intestata la battaglia  e la scorsa settimana ha detto che in primavera anche Budapest farà una legge per “regolamentare le operazioni interne delle grandi aziende tecnologiche”. Varga, nel partito di Viktor Orbán è tra i difensori più strenui  dell’ideologia con cui il governo accompagna tutte le sue politiche e dice che una legge è indispensabile soprattutto perché  i social limitano la visibilità delle opinioni cristiane, conservatrici, di destra, dice di subire lei stessa  delle limitazioni su Facebook. L’attenzione e il timore di Budapest e Varsavia nei confronti di una severità maggiore nei social è un modo per tutelare la propaganda dei partiti di governo. Né Orbán né Kaczynski, leader del partito che governa la Polonia, hanno la passione per le piattaforme, ma alcuni dei loro sostenitori sì. E Orbán il prossimo anno ha anche le elezioni, le più complicate dal 2010 e l’aiuto dei suoi sulle piattaforme  potrebbe essergli molto utile. 

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La svolta dei social contro Trump ha messo in allarme i trumpiani d’Europa, temono che i prossimi potrebbero essere loro perché spesso gli argomenti di Trump sono anche i loro argomenti, la storia di Trump, in grande, è la loro in piccolo. E vogliono correre ai ripari. Non che l’Unione europea non abbia percepito i rischi legati ai social, ma lotta per un approccio coordinato, che valga sia  per combattere la diffusione dell’estremismo, delle idee complottiste, della propaganda di estrema destra e sinistra, sia  per proteggere la libertà di parola. E’ un equilibrio difficile e pieno di ombre, per questo a Bruxelles sono preoccupati che ci siano paesi – Ungheria e Polonia che vanno spesso per conto loro, ma anche Germania e Francia – pronti ad adottare le proprie regole. 
 

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