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C’è una cellula dell’Isis dentro Baghdad

Daniele Ranieri

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Il portavoce del ministero della Difesa irachena, Yahia Rasool, sostiene che i due attentatori che ieri si sono fatti esplodere in un mercato di Baghdad e hanno ucciso trentadue persone fossero braccati dalla polizia e sul punto di essere catturati. I testimoni e i video smentiscono questa versione. Il primo stragista avrebbe detto di sentirsi male in modo da raccogliere attorno a sé un capannello di gente e poi ha fatto saltare in aria il suo corpetto esplosivo. Il secondo si è avvicinato a un altro gruppo di persone che guardava da lontano gli effetti del primo scoppio e anche lui ha fatto saltare un corpetto esplosivo.

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Rasool dice che il capo della cellula è stato catturato pochi giorni fa, domenica 17 gennaio, mentre organizzava l’attentato che avrebbe dovuto essere di venerdì. Non dice il suo nome, ma sostiene che fosse un leader della polizia religiosa dello Stato islamico nella regione di Anbar nel 2014. I due volontari suicidi però erano riusciti a sfuggire all’arresto – sempre secondo questa versione  – e si sono fatti saltare in un posto affollato con un giorno di anticipo.

 

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Nel momento in cui questo giornale va in stampa lo Stato islamico non ha ancora rivendicato la strage casuale tra i passanti di piazza dell’Aviazione, ma la responsabilità del gruppo terroristico è certa al novantanove per cento (aggiornamento: poco prima di mezzanotte lo Stato islamico ha rivendicato il massacro e ha identificato i due attentatori come Abu Yusef al Iraqi e Mohamed Arif al Muhajir, vuol dire un iracheno e uno straniero). Si capisce l’imbarazzo della Difesa: l’ultimo attentato suicida nella capitale dell’Iraq risale al gennaio 2018 — nella stessa piazza — sono passati tre anni, gli attacchi non facevano più parte della normalità di tutti i giorni. Quattro comandanti che erano responsabili per la sorveglianza antiterrorismo sono stati cacciati, come punizione. 
Baghdad è diventata una zona sicura e difficile da infiltrare, per molte ragioni. La composizione di un tempo della popolazione, un misto di sunniti e sciiti (sono entrambi musulmani, ma lo Stato islamico proclama di essere difensore dei sunniti contro gli odiati sciiti), oggi pende a favore della maggioranza sciita che esercita un controllo ferreo sui quartieri. Tanto che in questi ultimi anni il problema dominante in città erano le violenze delle milizie sciite tollerate dal governo.

 

Gli ultimi rapimenti di occidentali sono stati compiuti da loro (per ora tutti liberati e quindi fanno meno notizia), le uccisioni di massa durante le proteste dei giovani del 2019 e 2020 sono state eseguite da loro e molte operazioni brutali – come la distruzione di spacci di liquore o gli omicidi a catena di dissidenti – sono imputate a loro. Ieri dopo il doppio attentato in molti sui social media iracheni non menzionavano lo Stato islamico, ma accusavano la miscela di politica autoritaria e di gang fanatiche che controlla la capitale. Non è una pista che regge, ma i commenti rendono l’idea del clima che si respira a Baghdad. 

  

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Da anni lo Stato islamico era stato spinto fuori dalla metropoli irachena e di nuovo nelle sue zone rurali favorite, quella che comincia quasi subito fuori città in direzione ovest, dopo il carcere di Abu Ghraib, nella smisurata regione di Anbar (già citata qualche riga fa) che si allunga per centinaia di chilometri verso il confine con la Siria, e quella che comincia quasi subito a nord-est, nella regione di Diyala. Il gruppo terroristico, per una tradizione operativa già osservata molte volte in questi anni, prima si riorganizza nelle campagne e nei villaggi isolati, poi comincia con lentezza a tracimare nei centri abitati sempre più grandi. Per questo l’attacco a Baghdad di ieri suscita impressione – anche se una città così estesa non può essere sigillata in modo ermetico.

   

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C’è di nuovo un network dello Stato islamico che riesce a contrabbandare nella capitale due volontari suicidi e due corpetti esplosivi (ma per adesso non un’autobomba, come hanno notato in molti, che è più difficile da far scivolare attraverso i controlli e le barriere). Questo network avrebbe scelto il periodo dell’attacco con precisione. Non gli ultimi giorni del mandato di Trump, perché c’era la possibilità di scontri fra l’Amministrazione Trump e le milizie sciite in Iraq e lo Stato islamico si teneva in standby pronto per approfittare dell’eventuale caos. Non il giorno dell’insediamento di Joe Biden, perché la notizia sarebbe stata sommersa dalla transizione a Washington. Il giorno dopo invece, come a segnare una nuova fase. Dopo le decine di attacchi mensili che non fanno notizia nelle aree rurali, lo Stato islamico colpisce di nuovo dentro Baghdad. 

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