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Altro che “i media non ve lo dicono”

Quello che Pompeo non ha detto sugli uiguri e Pechino

Non serviva l'Amministrazione Trump per inchiodare la Cina alle sue responsabilità. Sono stati i giornalisti a raccontargli lo Xinjiang

Giulia Pompili

“Quello che sta accadendo lì i media lo hanno sottovalutato. Nessuno ha detto una parola a riguardo fino a quando non è arrivato il presidente Trump”, ha detto l'ex segretario di stato. Ma non è vero

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Nel suo ultimo giorno da settantesimo segretario di stato americano, Mike Pompeo ha dichiarato che  quello perpetrato dalla Cina nella regione autonoma dello Xinjiang è un “genocidio”. Negli ultimi mesi le attività del dipartimento di stato in chiave anticinese si sono concentrate soprattutto sulla denuncia delle attività nello Xinjiang e quelle che finora erano chiamate “violazioni dei diritti umani”: molti funzionari cinesi responsabili della politica dell’area sono stati posti sotto sanzioni economiche, l’America ha bloccato tutte le importazioni di pomodori e cotone dalla regione. In un’intervista rilasciata un mese fa al programma conservatore “Mark Levin Show”, Pompeo ha detto che purtroppo “in molti casi i media americani sono legati al Partito comunista cinese. Quindi significa che le testate giornalistiche  sono spesso riluttanti a coprire certe violazioni da parte della Cina o peggio, a volte, trasmettono la propaganda cinese”. Poi Levin gli fa una domanda sullo Xinjiang, e Pompeo risponde che “quello che sta accadendo lì i media lo hanno sottovalutato. Nessuno ha detto una parola a riguardo fino a quando non è arrivato il presidente Trump”. E’ la solita storia de “i media non ve lo dicono”, l’attacco ai giornalisti e alla “stampa mainstream” che ha caratterizzato la presidenza di Trump. Eppure, ben prima che la questione dello Xinjiang e del trattamento degli uiguri – e delle altre minoranze etniche dell’area – si trasformasse in una guerra ideologica contro la Cina, prima che diventasse un problema riconosciuto a livello internazionale, a occuparsi della questione erano soprattutto i giornalisti.
E’ stato grazie a una serie di inchieste giornalistiche che nel 2017, dopo aver negato l’esistenza dei campi di detenzione per dissidenti, minoranze etniche e religiose, Pechino ha ammesso la loro esistenza e li ha definiti “campi di rieducazione”. 

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Nel suo ultimo giorno da settantesimo segretario di stato americano, Mike Pompeo ha dichiarato che  quello perpetrato dalla Cina nella regione autonoma dello Xinjiang è un “genocidio”. Negli ultimi mesi le attività del dipartimento di stato in chiave anticinese si sono concentrate soprattutto sulla denuncia delle attività nello Xinjiang e quelle che finora erano chiamate “violazioni dei diritti umani”: molti funzionari cinesi responsabili della politica dell’area sono stati posti sotto sanzioni economiche, l’America ha bloccato tutte le importazioni di pomodori e cotone dalla regione. In un’intervista rilasciata un mese fa al programma conservatore “Mark Levin Show”, Pompeo ha detto che purtroppo “in molti casi i media americani sono legati al Partito comunista cinese. Quindi significa che le testate giornalistiche  sono spesso riluttanti a coprire certe violazioni da parte della Cina o peggio, a volte, trasmettono la propaganda cinese”. Poi Levin gli fa una domanda sullo Xinjiang, e Pompeo risponde che “quello che sta accadendo lì i media lo hanno sottovalutato. Nessuno ha detto una parola a riguardo fino a quando non è arrivato il presidente Trump”. E’ la solita storia de “i media non ve lo dicono”, l’attacco ai giornalisti e alla “stampa mainstream” che ha caratterizzato la presidenza di Trump. Eppure, ben prima che la questione dello Xinjiang e del trattamento degli uiguri – e delle altre minoranze etniche dell’area – si trasformasse in una guerra ideologica contro la Cina, prima che diventasse un problema riconosciuto a livello internazionale, a occuparsi della questione erano soprattutto i giornalisti.
E’ stato grazie a una serie di inchieste giornalistiche che nel 2017, dopo aver negato l’esistenza dei campi di detenzione per dissidenti, minoranze etniche e religiose, Pechino ha ammesso la loro esistenza e li ha definiti “campi di rieducazione”. 

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Nel 2011 a tredici accademici americani fu negato  il visto d’ingresso in Cina per un libro che avevano scritto sul cosiddetto “Xinjiang project”, il progetto di “assimilazione” delle minoranze etniche e religiose della regione autonoma attraverso l’eliminazione forzata della cultura uigura e la programmazione familiare. Nel 2014, dopo gli attacchi islamisti di Parigi, la giornalista e sinologa Ursula Gauthier, che all’epoca era corrispondente dalla Cina per il francese L’Obs, scrisse che la reazione simpatetica di Pechino con Parigi e contro il terrorismo islamico era in realtà un’arma per giustificare le sue politiche nello Xinjiang. Le venne chiesto dalle autorità di Pechino di scusarsi per quell’articolo che “incitava al terrorismo”, e poi fu espulsa. E’ stata espulsa anche Megha Rajagopalan, corrispondente di BuzzFeed, che ha firmato il primo storico reportage sulla sorveglianza di stato nella regione. A fine dicembre, insieme con Alison Killing,  Rajagopalan ha pubblicato il quarto episodio di una mastodontica inchiesta sullo Xinjiang basata sull’analisi di centinaia di testimonianze, immagini satellitari, documenti governativi. La consapevolezza della comunità internazionale su quello che accade da anni nello Xinjiang passa soprattutto dal mondo del giornalismo.


Oggi entrare nelle regioni calde per la politica di Pechino, come il Tibet o lo Xinjiang, è sempre più difficile per un giornalista. Le ambasciate cinesi di mezzo mondo organizzano press tour gratuiti (e molto comodi) per giornalisti nello Xinjiang, per mostrare la versione cinese, ovvero la propaganda. Secondo quanto risulta al Foglio, che ha sentito chi era stato invitato – in Italia e all’estero – Pechino ha sempre più difficoltà a organizzare questi tour perché nessuno vuole andarci. Non i giornalisti che hanno un minimo di conoscenze di base della questione, perché sanno che è solo una parte della storia.

 

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La scorsa settimana Janine di Giovanni, una delle reporter di guerra più famose, ha scritto un articolo su Foreign policy per dire che senza i giornalisti sul campo, che vanno a vedere le cose – per mancanza di fondi, ma anche perché sempre più zone, specialmente in Cina, sono off-limits per i reporter – è difficile anche fare politica: “Questo tipo di reportage vecchia scuola è quasi scomparso. E questo ha conseguenze che vanno ben oltre la professione giornalistica. Senza una solida base di reportage documentati, con buone fonti da tutto il mondo che facciano da contrappeso al flusso di narrazioni, opinioni e disinformazione guidato dai social media, diventa difficile avere un dibattito pubblico informato sulla politica estera”. Nello Xinjiang è stato il giornalismo “vecchia scuola” ad aver puntato una luce su un problema che  prima non era  prioritario per la politica internazionale. Men che meno per Trump e i suoi seguaci.

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