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Fuori come sarà - 2021

Putin, il nonno nel bunker

La pandemia, il referendum e l'avvelenamento di Navalny, il capo de Cremlino è intrappolato nella parodia del totalitarismo sovietico. Difficile uscirne

Anna Zafesova

Non è questione di età anagrafica, ormai il presidente russo sta incentrando la sua presidenza sul passato e spera che questo lo aiuterà a ignorare il resto. E' stato un presidente post-traumatico, ma l'uscita dal grande sonno è soltanto questione di rinvii

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Tra tutte le rivelazioni dei media indipendenti che hanno colpito come siluri le fondamenta del Cremlino nell'ultimo mese del 2020 – dalle inchieste sull'ex genero di Vladimir Putin, Kirill Shamalov, che ha avuto come regalo di matrimonio un pacchetto plurimiliardario di azioni petrolchimiche pagato solo 100 dollari (e prontamente ritirato dopo il divorzio), a quelle sulle sue ex amanti proprietarie di mezza Pietroburgo, fino all'indagine sugli esperti di guerra chimica dell'Fsb che hanno pedinato Alexey Navalny per anni, fino ad avvelenarlo a Tomsk – quella che però resta forse la più simbolica è la scoperta di Proekt Media sui due uffici del presidente. Da qualche giorno i russi si divertono a cercare le 10 differenze tra le varie foto ufficiali (tra gli indizi, la distanza dell'interruttore della luce dallo stipite della porta, la lunghezza del cardine e le righe del parquet) per cercare di indovinare dove si trova il loro leader: nella dacia dove abita appena fuori Mosca, o nella sua residenza a Sochi, sul Mar Nero, dove a quanto pare si è rifugiato dalla seconda ondata del virus, senza però dirlo ai suoi sudditi. Una messinscena piuttosto facile: da marzo Putin non vede praticamente nessuno e governa il paese in teleconferenza. Per incontrarlo dal vivo, bisogna sottoporsi a una quarantena per nulla fiduciaria di 14 giorni, e gli unici a filmarlo sono i giornalisti della sua troupe dedicata della TV di stato. In altre parole, oltre a non sapere spesso cosa pensa e combina il capo di stato, i russi ora non hanno certezze nemmeno su dove si trova.

 

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In un certo senso, Putin ha raggiunto il massimo del dominio sullo spazio, dopo aver conquistato nel “voto popolare” di giugno anche quello sul tempo: i suoi quattro mandati presidenziali sono stati “azzerati”, e ora può regnare fino al 2036 come se fosse un esordiente della politica, anche se alla conferenza stampa di fine anno (sempre in video) ha confessato di non avere ancora deciso se ricandidarsi per altri sei anni nel 2024, in attesa di capire se ciò “farà il bene della Russia”. Lo stesso voto ha ampliato a dismisura i suoi poteri nella già presidenzialissima Costituzione russa, e mentre i suoi amici oligarchi stanno vincendo tutti gli appalti e privatizzando le società più promettenti, i suoi pretoriani dei servizi e della polizia ottengono sempre nuovi privilegi e protezioni. Dopo vent'anni alla guida della Russia, la costruzione della “verticale del potere” putiniana sembra ultimata, e assomiglia sempre di più a quella descritta nella meravigliosa distopia di Vladimir Vojnovich “Mosca 2042” (pubblicata in italiano qualche anno fa da Dalai), dove il governo era in mano al Genialissimo segretario del PCGB, che aveva fuso comunismo, ortodossia e polizia segreta in un unico onnipresente conglomerato ideologico.

 

L'esilarante parodia del totalitarismo sovietico era stata scritta nel 1982, al tramonto del breznevismo, e si concludeva con la scoperta che i sodali del Genialissimo l'avevano spedito in un satellite in orbita, per non averlo tra i piedi, mentre la popolazione venerava, in segreto, un dissidente nel quale si riconosceva senza troppi veli un molto caricaturale Aleksandr Solzhenitsyn, che rovesciava il regime del PCGB tornando trionfante dall'esilio in occidente. Una satira che sembrava appartenere alla sua epoca, se non fosse che oggi milioni di russi – molti dei quali ignorano ormai sia Solzhenitsyn che Breznev – nei loro social chiamano il presidente “il nonno nel bunker”, e cliccano a milioni sui post di Navalny, che alla violenza della denuncia di Solzhenitsyn unisce tutta l'abilità dirompente di un comunicatore nato insieme a Internet. L'isolamento fisico di Putin, che si nasconde dal virus mentre non indice alcun lockdown e non elargisce praticamente nessun aiuto a famiglie e imprese colpite dalla pandemia, ha messo in risalto il suo crescente distacco mentale dal paese che governa. Il suo recente ordine di fermare il rincaro dei prodotti alimentari di prima necessità è sintomatico sia della gravità della crisi socio-economica della Russia che dell'impreparazione del Cremlino ad affrontarla. La sua affermazione fatta a Emanuel Macron, su Navalny che si è avvelenato da solo, e quella del ministro degli Esteri Sergey Lavrov, che invece crede che il leader dell'opposizione sia stato avvelenato dai tedeschi, dimostra come ormai la linea divisoria tra la propaganda a uso interno e la diplomazia nel mondo reale sia sparita anche nella testa dei capi del regime, e non a caso il presidente francese si infuria per essere stato trattato come uno scemo, “come un moujik qualunque”, pare abbia esclamato.

 

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Il “nonno” non è ovviamente una questione anagrafica: Joe Biden, con il quale Putin finalmente si è congratulato, ultimo leader sul pianeta, è più anziano del suo collega russo. La differenza sta nel cercare di accorciare la distanza con la modernità, oppure aumentarla, immergendosi sempre di più in un glorioso passato che permette di ignorare tutto: l'isolamento internazionale, la crisi economica, la nuova pioggia di sanzioni, il crescente scontento interno, la tragedia del coronavirus e l'ascesa finale della Cina come l'altra superpotenza. Putin è stato un presidente post-traumatico, arrivato ad anestetizzare lo shock del collasso del comunismo, come Breznev aveva addormentato l'Urss dopo il crollo del mito stalinista (in entrambi i casi aiutati dai petrolrubli). La storia si ripete, spesso come una farsa, con la Siria al posto dell'Afghanistan, la Belarus invece della Polonia di Solidarnosc e gli agenti dei servizi che tornano ad avvelenare dissidenti (e a farsi beccare maldestramente). Come nel 1982, tutti, componenti della nomenclatura inclusi, si rendono conto che “così non si può andare avanti”, come disse Eduard Shevardnadze a Mikhail Gorbaciov davanti a un mare d'inverno in una Crimea ancora non diventata il premio della prima annessione europea del dopoguerra. E tutti hanno paura di non riuscire a sopravvivere al cambio della guardia, e cercano di rinviarlo a oltranza l'uscita dal grande sonno.

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