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Fuori come sarà - 2021

Iran, il pane o la paura?

Per Khamenei si chiude un annus horribilis. I nomi nuovi e le strategie che circolano e il suono di una voce "per ricordare al mondo che siamo una cultura che canta l'amore, la pace, l'amicizia"

Tatiana Boutourline

Il dilemma del regime di Teheran che in vista delle prossime elezioni dovrà scegliere se vorrà risollevare l'economia, quindi tornare all'accordo sul nucleare, o restaurare l'orgoglio, vendicare Fakhrizadeh e Suleimani e rinunciare al primo obiettivo. Le alternative a Rohani, che ha molto promesso e poco mantenuto

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Mercoledì 16 dicembre, l’Ayatollah Khamenei  è ricomparso in pubblico fugando le voci che ciclicamente lo danno per morto. Seduto in fondo ad un grande salone, a metri e metri di distanza dagli altri astanti, il leader supremo ha tuonato davanti a un tendaggio d’un azzurro compatto che pareva fatto apposta per esaltare tanto il candore della barba, quanto il nero del turbante e della lunga veste. “Non fidatevi del nemico. Abbiamo visto come si sono comportati gli Stati Uniti con Trump, ma anche con Obama. Obama si è rivelato altrettanto malvagio nei confronti della nazione iraniana”. Ma un po’ per via dell’inquadratura che, di tanto in tanto, s’allargava rimpicciolendolo, un po’ per via della mascherina che offuscava la consueta gravitas, l’ esortazione contro i tranelli della futura amministrazione Biden, è suonata fiacca, come se a dispetto dell’odio granitico contro il grande satana statunitense, Khamenei non fosse in grado di nascondere la stanchezza accumulata nel suo annus horribilis. E del resto l’occasione in cui ha scelto di palesarsi - una commemorazione in onore di Qassem Suleimani - non poteva che ricordargli quello che gli ultimi dodici mesi gli hanno sottratto.

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Mercoledì 16 dicembre, l’Ayatollah Khamenei  è ricomparso in pubblico fugando le voci che ciclicamente lo danno per morto. Seduto in fondo ad un grande salone, a metri e metri di distanza dagli altri astanti, il leader supremo ha tuonato davanti a un tendaggio d’un azzurro compatto che pareva fatto apposta per esaltare tanto il candore della barba, quanto il nero del turbante e della lunga veste. “Non fidatevi del nemico. Abbiamo visto come si sono comportati gli Stati Uniti con Trump, ma anche con Obama. Obama si è rivelato altrettanto malvagio nei confronti della nazione iraniana”. Ma un po’ per via dell’inquadratura che, di tanto in tanto, s’allargava rimpicciolendolo, un po’ per via della mascherina che offuscava la consueta gravitas, l’ esortazione contro i tranelli della futura amministrazione Biden, è suonata fiacca, come se a dispetto dell’odio granitico contro il grande satana statunitense, Khamenei non fosse in grado di nascondere la stanchezza accumulata nel suo annus horribilis. E del resto l’occasione in cui ha scelto di palesarsi - una commemorazione in onore di Qassem Suleimani - non poteva che ricordargli quello che gli ultimi dodici mesi gli hanno sottratto.

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Dalla morte del capo di al Quds, all’abbattimento “accidentale” del boeing ucraino per la leadership iraniana è andato tutto storto: prima il Covid che ha portato la morte nei seminari e falcidiato tutto l’arco costituzionale, poi la siccità e gli scioperi nelle raffinerie, la tragedia al porto di Beirut che gli ha fatto temere per il destino di Hezbollah, le esplosioni e i blackout negli impianti missilistici e nucleari. E se la primavera di Khamenei è stata drammatica e l’estate velenosa, l’autunno teso e mesto non solo non gli ha restituito il sonno, ma è culminato con l’uccisione dello scienziato-pasdaran Mohsen Fakhrizadeh. Ciò detto, i guai a Teheran sono iniziati prima. L’anno da dimenticare del leader supremo è cominciato sul finale del 2019, con le manifestazioni. “Khamenei dittatore!” hanno urlato nelle strade su è giù per il paese, ma anche in Libano ed in Iraq, trascinando il suo volto ieratico nel fango, uomini e donne esasperati dal carovita, dalla violenza e dalla mancanza di prospettive. Nel frattempo, l’economia iraniana orfana del deal nucleare e assediata dal “maximum pressure” di Trump s’è inabissata. Il rial ha perso il 49 per cento del suo valore, l’Economist Intelligence Unit prevede un crollo del pil del 12 per cento e beni di prima necessità come il riso, le uova, lo zucchero e il tè hanno subito aumenti tra il 60 e il 90 per cento. Secondo l’economista Hassan Mansour, in questa situazione Khamenei sarà costretto a cercare liquidità, 80 miliardi di dollari, di cui 10 a strettissimo giro, per sostenere da un lato gli emissari in Siria, in Libano ed e in Iraq e dall’altro la repressione interna. 

 

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No bread, no fear” scrivono i manifestanti in farsi e in inglese. Lo hanno scritto un anno fa sui cartelli, gli iraniani schiacciati come mosche e lo scrivono ancora, perché in alcune province il pane si compra a rate e la disperazione è più forte della paura. Il pane e la paura. Il pane o la paura? E’ questo il dilemma di Khamenei, perché, come sottolinea Karim Sadjadpour del Carnagie Endowment, se Teheran vuole risollevare l’economia, dovrà tornare, in modo totale o parziale, all’accordo nucleare. Al contrario, se decide di privilegiare la deterrenza, restaurare l’orgoglio (in patria e all’estero), dovrà vendicare Fakhrizadeh e Suleimani, ma in questo modo, sull’altare dell’onore, finirebbe col sacrificare il primo obiettivo. Dev’essere stata proprio questa, argomenta Sadjadpour, la scommessa degli avversari del regime. Sta di fatto che Khamenei davanti alla figlia del generale Suleimani che sproloquiava sull’origine (americana) dell’Isis, ha pronunciato parole fredde ma possibiliste sul deal. “La rimozione delle sanzioni è nelle mani del nemico. Ma neutralizzarle è compito nostro. Dovremmo lavorare più sul neutralizzare che sul rimuovere, ma non dico che non dovremmo cercare di eliminare le sanzioni…” L’aspetto interessante della faccenda è che di per sé l’ipotesi del dialogo non rappresenti più un tabù e un’eventuale trattativa potrebbe essere condotta da persone ancora più vicine a Khamenei. Durante la campagna elettorale americana nell’ufficio del leader supremo si è lavorato tanto sullo scenario di un’amministrazione Biden che sulla riconferma di Trump. Lo stesso ministro degli esteri Javad Zarif ha insinuato che i conservatori stiano manovrando dietro le quinte per agganciare la squadra di Biden in un’intervista con il quotidiano Entekhab. “Dicono che Rohani e la sua amministrazione non rimarranno al loro e quindi si fanno avanti”.

 

Il presidente iraniano, in effetti, non naviga in buone acque, la possibilità che Zarif gli possa succedere, un’ambizione che lui ha finora negato, ma che a molti pareva acclarata, è in dubbio, perché in Iran la delusione è palpabile e l’idea stessa di “riformismo dall’alto” non è mai parsa più ipocrita. Nel 2013, lo sconquasso creato da Mahmoud Ahmadinejad aveva riportato in auge il desiderio di una leadership esperta e razionale, ma Rohani ha molto promesso e poco mantenuto. La chiave simbolo della sua prima campagna elettorale è stata agitata come una carota e poi è tornata nel cassetto. Certo, il fallimento del deal ha contribuito alla disfatta, perché è vero che gli investimenti stranieri non si sono materializzati, ma Rohani ha deluso anche come amministratore. In questi mesi è stata creata un’app per gli studenti chiamata Shadi, ossia felici, ma la felicità è stata vanificata dall’assenza di computer e di collegamenti veloci e il ministero è stato subissato dalle proteste. I primi anni Rohani è riuscito a contenere l’inflazione, per un po’ il dialogo con l’Europa, le pacche sulle spalle tra Kerry e Zarif lo hanno tenuto al riparo dalla critiche, ma poi quando si è trattato di affrontare i Pasdaran il presidente si è arreso, l’80 per cento dell'economia è rimasta nelle loro mani, legata a corporation e fondazioni, la corruzione non è stata arginata, la repressione è rimasta feroce. L’Iran è diventato un paese ancora più insicuro per i giornalisti, i ricercatori, gli avvocati.

 

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Gli iraniani della diaspora corteggiati durante la prima campagna elettorale si sono ritrovati bersaglio delle lotte intestine tra servizi di sicurezza ed i casi di iraniani con doppia cittadinanza arrestati e tenuti in ostaggio, dopo un ritorno a Teheran si sono moltiplicati, al punto che il governo tedesco ha invitato i dual-nationals a restare alla larga da Teheran. All’estero il duo Rohani-Zarif ha spesso lasciato filtrare insofferenza nei confronti dei conservatori ai quali hanno sempre attribuito gli aspetti più indifendibili di quello che accade in Iran, ma i troppi “vorrei ma non posso” che hanno sedotto le cancellerie internazionali non fanno presa sui cittadini iraniani e l’hashtag #Zarifisaliar ha seguito passo passo le mosse del capo della diplomazia di Rohani. E’ ancora presto per parlare di candidature solide, in Iran il vento gira veloce, ma nelle stanze di Khamenei, il figlio Mojtaba sta già immaginando il nuovo corso in vista delle presidenziali di giugno. La parola d’ordine è "ringiovanimento" . La leadership ottuagenaria di Khamenei ha bisogno di volti freschi e fedeli alla causa, ossia alla famiglia. Sul clero, sui vari clan cleptocratici non possono fare affidamento, ma anche i pasdaran vecchia maniera si sono dimostrati problematici. Ahmadinejad ad esempio era una testa calda e gli scontri con Khamenei sono stati epici. Il profilo vincente è quello di pasdaran con dottorato (i titoli accademici sono un’ossessione in Iran) ed esperienza manageriale, uomini come Hossein Dehgan, Ali Bagheri e Said Mohammad. Dehgan è uno dei consiglieri militari più ascoltati di Khamenei, Bagheri è stato uno dei negoziatori nucleari del team Jalili ed è pure imparentato con Khamenei, ma forse il nome più suggestivo è quello di Said Mohammed. Cinquantenne, occhi neri e scintillanti, si è fatto le ossa lavorando per le corporation delle guardie rivoluzionarie ed è un perfetto pasdaran-Ceo, che sa vestire (sono lontani i tempi delle giacchette stazzonate di Ahmadinejad) e frequenta mall alla moda con caffè tipo Starbucks e Pizza Hut, perché è stato lui a costruirli.

 

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Intervistato dal Washington Post nel 2019 si è proposto come come  l'angelo custode degli imprenditori iraniani ( “Come un rosario, in cui le perline sono le società iraniane, noi siamo il filo che le tiene insieme”) anche se, a dire il vero, ricorda più da vicino il lupo di cappuccetto rosso.  

 

 

Tuttavia anche qualora Khamenei vincesse imponendo il suo eletto nell’urna (quelle iraniane sono selezioni e non le elezioni, occorre sempre tenerlo presente), gli resta comunque il problema del pane e della paura. In Iran si respira una strana aria da fine dell’impero. Dilaga il terrore, ma dilagano anche gli atti di coraggio. A ottobre è morto Mohammed Reza Shajarian che era un musicista, ma soprattutto la voce persiana degli ultimi cinquant'anni. Colto, raffinato e popolare insieme, Shajarian ha ricevuto molte medaglie e riconoscimenti internazionali, sarebbe potuto andare ovunque, ma ha scelto di rimanere in Iran. Nel 2009, durante le manifestazioni contro la fraudolenta rielezione di Ahmadinejad si è schierato dalla parte dei ragazzi e la tv di stato lo ha bandito. Shajarian ha continuato a cantare e ha scritto un motivo per invitare i bassiji a deporre le armi. In un'intervista del 2015 ha spiegato: "La mia voce è nata per ricordare al mondo che siamo una cultura che canta l'amore, la pace, l'amicizia". Quando si è diffusa la notizia della sua morte, migliaia e migliaia di persone si sono riversate nelle strade cantando i versi delle sue canzoni, canzoni epiche e politiche allo stesso tempo. Le gente cantava e le solite motociclette nere dei picchiatori di regime sfrecciavano con bastoni e manganelli colpendo dove capitava. Nelle stesse ore il il figlio Shajarian ha diffuso un messaggio che recitava: “La polvere sotto i piedi del popolo è volata in alto per incontrare il vero amore”, un’ allusione di sapore coranico e biblico, ma anche una risposta ad Ahmadinejad (e a Khamenei) che dei manifestanti disse: “Sono polvere e spazzatura”. Shajarian è stato sepolto a Tous. Sulla lapide l’incisione recita: "Sono Mohammed Shajarian, figlio dell’Iran".

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