PUBBLICITÁ

Come funziona la scala dell’escalation cinese

Negozia, sanziona, punisci. L’Australia sta subendo una guerra a tutto campo, e molti altri paesi ci sono passati

Giulia Pompili

Con la Cina sempre più influente e potente le relazioni internazionali non si muovono più secondo gli schemi del passato. C'è un nuovo metodo. Corea del sud e Giappone ci sono già passati, e sanno come affrontare il Dragone. Per l'occidente è tutto nuovo

PUBBLICITÁ

La vicenda della foto falsa pubblicata l’altro ieri da Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, con un soldato australiano che minaccia con un coltello un bambino afghano, ha aperto una serie di considerazioni su come i governi occidentali devono reagire alle provocazioni di Pechino.  Zhao è un cosiddetto “wolf warrior”, una “nuova” classe di diplomatici che tenta di contrastare, su suggerimento di Pechino, la narrativa occidentale proponendo una nuova narrativa, quella con caratteristiche cinesi. Alla propaganda di Pechino il primo ministro australiano Scott Morrison ha risposto con una reazione particolarmente dura, chiedendo le scuse ufficiali della Cina. Il problema è che da almeno un anno le relazioni diplomatiche tra Australia e Cina sono ai livelli minimi, e per invertire la rotta servirebbe un dialogo tradizionale, la diplomazia dei vecchi tempi. Con la Cina, però, le relazioni internazionali non si muovono più secondo gli schemi del passato. Pechino, con i paesi con cui ha difficoltà, adotta già da qualche anno una sorta di “manuale” per imporre la propria influenza e irrobustire la propaganda interna, facendo leva sulla sua potenza economica, confondendo piani politici e commerciali e ignorando le regole occidentali. C’è una sorta di scala dell’escalation cinese nelle relazioni internazionali: si parte con il negoziato, si passa alternativamente alla guerra commerciale e al boicottaggio, per poi finire, nel peggior scenario, alla cosiddetta “diplomazia degli ostaggi”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La vicenda della foto falsa pubblicata l’altro ieri da Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, con un soldato australiano che minaccia con un coltello un bambino afghano, ha aperto una serie di considerazioni su come i governi occidentali devono reagire alle provocazioni di Pechino.  Zhao è un cosiddetto “wolf warrior”, una “nuova” classe di diplomatici che tenta di contrastare, su suggerimento di Pechino, la narrativa occidentale proponendo una nuova narrativa, quella con caratteristiche cinesi. Alla propaganda di Pechino il primo ministro australiano Scott Morrison ha risposto con una reazione particolarmente dura, chiedendo le scuse ufficiali della Cina. Il problema è che da almeno un anno le relazioni diplomatiche tra Australia e Cina sono ai livelli minimi, e per invertire la rotta servirebbe un dialogo tradizionale, la diplomazia dei vecchi tempi. Con la Cina, però, le relazioni internazionali non si muovono più secondo gli schemi del passato. Pechino, con i paesi con cui ha difficoltà, adotta già da qualche anno una sorta di “manuale” per imporre la propria influenza e irrobustire la propaganda interna, facendo leva sulla sua potenza economica, confondendo piani politici e commerciali e ignorando le regole occidentali. C’è una sorta di scala dell’escalation cinese nelle relazioni internazionali: si parte con il negoziato, si passa alternativamente alla guerra commerciale e al boicottaggio, per poi finire, nel peggior scenario, alla cosiddetta “diplomazia degli ostaggi”.

PUBBLICITÁ

 

L’Australia lo scorso anno è stata la prima nazione del Five Eyes (il consorzio d’intelligence che comprende Australia, Nuova Zelanda, Canada, Stati Uniti e Regno Unito) a escludere le aziende cinesi dalla propria rete 5G, ha promulgato una legge contro le interferenze straniere (con chiaro riferimento alla Cina), ha chiesto una indagine internazionale sulla pandemia. Insomma, il governo di Canberra ci è andato giù pesante contro Pechino, e l’Australia ha attraversato tutte le fasi del metodo cinese di diplomazia: dai messaggi di apertura e dialogo del 2019 si è passati velocemente alla guerra commerciale e alla “punizione politica”, con l’imposizione di sanzioni e dazi su numerosi prodotti australiani – il più colpito, in questo momento, è il settore del vino. A settembre due giornalisti australiani sono scappati dalla Cina perché temevano di essere arrestati. Qualcosa di molto simile è successo al Canada: dopo l’arresto di Meng Wanzhou, numero due di Huawei, su richiesta degli Stati Uniti, c’era poco da negoziare. Subito dopo la Cina ha arrestato, per un generico “attentato alla sicurezza nazionale”, due cittadini canadesi, Michael Kovrig e Michael Spavor, ancora detenuti ingiustamente e in attesa di processo. 

 
I primi paesi a testare questo nuovo tipo di diplomazia cinese sono stati gli alleati americani in Asia orientale, Corea del sud e Giappone. Quattro anni fa, quando la Corea del sud si preparava a ospitare sul suo territorio lo scudo antimissile americano Thaad, la Cina ha favorito un boicottaggio non ufficiale contro il paese, che è costato a Seul lo 0,5 per cento del pil. Il riavvicinamento a Pechino, per il governo sudcoreano, è stato lungo e faticoso. Anche quello dell’ex primo ministro Shinzo Abe al presidente cinese Xi Jinping è stato un riavvicinamento difficile: la questione delle isole contese, esplosa tra il 2012 e il 2013, ha dato una lezione a Tokyo. Il ministero degli Esteri giapponese è uno dei pochi che riesce a collaborare con la Cina “senza mai fidarsi”, spiega una fonte interna al Foglio. Così ogni volta che tra i due paesi succede qualcosa – un anno fa, per esempio, un professore universitario dell’Hokkaido arrestato, e rilasciato pochi giorni dopo – il Giappone riesce a gestire la Cina senza provocare escalation. Ma “è un equilibrio difficile”, dice la fonte.
 

PUBBLICITÁ
Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ