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L’Armenia si è arresa nel Nagorno-Karabakh

Le proteste nella capitale armena dopo la firma dell'accordo con la Russia e l'Azerbaigian

Micol Flammini

Gli scontri sono finiti con tre vincitori e uno sconfitto: Erevan, che adesso si sente tradita da tutti. L’accordo con russi e azeri è poco chiaro e non ci sono riferimenti al futuro status dell'enclave

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Roma. La consapevolezza che ci fosse un’intesa pronta, negoziata tra il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco Recep Tayyip Erdogan per mettere fine al conflitto nel Nagorno-Karabakh, aveva lasciato indifferenti gli armeni, che hanno continuato a pensare che la guerra fosse da vincere, a ogni costo. Di quell’accordo si conosceva già abbastanza per concludere che sarebbe stato vantaggioso per tutti – azeri, russi e turchi – ma non per Erevan, che sarebbe stata costretta a fare grandi concessioni. Lunedì notte, il premier armeno Nikol Pashinyan ha annunciato la resa, ha detto di aver preso una decisione “dolorosa”, di averlo fatto dopo aver considerato tutta la situazione. Fino a pochi giorni prima i cittadini dell’Armenia avevano continuato a ricevere notizie di un conflitto complicato e sanguinoso che però si stava concludendo a loro favore, e quando invece si sono trovati davanti alla resa si sono sentiti traditi. Che Erevan stesse vincendo lo ripetevano anche i comunicati del premier e del presidente, Armen Sarkissian. Per l’Armenia e il Nagorno-Karabakh –  l’enclave azera a maggioranza armena  attaccata dall’Azerbaigian domenica 27 settembre  – la sconfitta è chiara e anche molto dura. L’accordo che il premier ha siglato prevede che gli armeni perdano il controllo dell’area, al loro posto sono già arrivate delle forze di peacekeeping russe  e che l’Azerbaigian riprenda il controllo di tutti e sette i distretti confinanti con l’enclave persi durante gli scontri. La Russia dispiegherà duemila soldati nella regione per un periodo iniziale di cinque anni, il suo ruolo sarà quello di controllare i corridoi: quello di Lachin che collega l’enclave con l’Armenia e quello che invece collega Nakhichevan, exclave azera in territorio armeno, all’Azerbaigian e quindi alla Turchia lungo il confine con l’Iran. 

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Roma. La consapevolezza che ci fosse un’intesa pronta, negoziata tra il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco Recep Tayyip Erdogan per mettere fine al conflitto nel Nagorno-Karabakh, aveva lasciato indifferenti gli armeni, che hanno continuato a pensare che la guerra fosse da vincere, a ogni costo. Di quell’accordo si conosceva già abbastanza per concludere che sarebbe stato vantaggioso per tutti – azeri, russi e turchi – ma non per Erevan, che sarebbe stata costretta a fare grandi concessioni. Lunedì notte, il premier armeno Nikol Pashinyan ha annunciato la resa, ha detto di aver preso una decisione “dolorosa”, di averlo fatto dopo aver considerato tutta la situazione. Fino a pochi giorni prima i cittadini dell’Armenia avevano continuato a ricevere notizie di un conflitto complicato e sanguinoso che però si stava concludendo a loro favore, e quando invece si sono trovati davanti alla resa si sono sentiti traditi. Che Erevan stesse vincendo lo ripetevano anche i comunicati del premier e del presidente, Armen Sarkissian. Per l’Armenia e il Nagorno-Karabakh –  l’enclave azera a maggioranza armena  attaccata dall’Azerbaigian domenica 27 settembre  – la sconfitta è chiara e anche molto dura. L’accordo che il premier ha siglato prevede che gli armeni perdano il controllo dell’area, al loro posto sono già arrivate delle forze di peacekeeping russe  e che l’Azerbaigian riprenda il controllo di tutti e sette i distretti confinanti con l’enclave persi durante gli scontri. La Russia dispiegherà duemila soldati nella regione per un periodo iniziale di cinque anni, il suo ruolo sarà quello di controllare i corridoi: quello di Lachin che collega l’enclave con l’Armenia e quello che invece collega Nakhichevan, exclave azera in territorio armeno, all’Azerbaigian e quindi alla Turchia lungo il confine con l’Iran. 

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Dall’accordo, annunciato ieri anche da Vladimir Putin,  mancano due cose molto importanti: il futuro status del Nagorno-Karabakh non è stato deciso, ma il presidente azero, Ilham Aliyev ha escluso che gli verrà riconosciuta l’autonomia; e la sistemazione dei profughi armeni dell’alto Karabakh – si sa che gli azeri potranno tornare e il loro ritorno avverrà sotto l’egida dell’Onu, ma quello che accadrà ai 150.000 rifugiati armeni non si sa. A Erevan, dopo l’annuncio di Pashinyan, sono scoppiate le proteste, i manifestanti si sono spinti fino a dentro  le istituzioni, sono arrivati sotto casa del premier, il presidente del Parlamento è stato attaccato. Gli armeni hanno detto che non accetteranno la resa. Si sentono traditi dal premier, dal presidente, dalla Russia che non ha mai amato Pashinyan,    e dalla comunità internazionale, che si è tenuta a distanza dal conflitto, non ha reagito. 

 

 

La popolazione adesso è spaccata, da una parte c’è chi crede che una vittoria sia ancora possibile e vuole continuare a combattere, dall’altra c’è chi invece non perdona alle autorità i comunicati di vittoria delle ultime settimane. La resa è arrivata dopo che i soldati azeri erano riusciti a prendere la città di Shushi, la seconda più importante del Karabakh e anche quella più strategica: domina tutta la vallata. Secondo fonti vicine alle istituzioni  consultate dal Foglio, le autorità armene sapevano già da venerdì che  Shushi fosse stata presa dagli azeri e il corridoio di Lachin fosse saltato: il governo ha ammesso la perdita soltanto lunedì. Questo insieme di comunicati esaltanti, la voglia di vincere una guerra rimasta irrisolta dal crollo dell’Unione sovietica e la sconfitta così rapida ha poi motivato la rabbia degli armeni, tra di loro molto divisi, che muovono a Pashinyan tre critiche: l’impreparazione dell’esercito rispetto agli avversari; le notizie infondate; e infine la resa. Gli azeri avevano dalla loro parte droni e mercenari siriani mandati da Erdogan e le perdite materiali di Erevan sono altissime: i droni hanno distrutto centinaia di carri armati (alcune fonti dicono che non ce ne sono più) e i sistemi di difesa antiaerea. Il conteggio preciso delle vittime ancora non si conosce, ma in Armenia c’è chi parla del sacrificio di una generazione giovanissima mandata a combattere in condizioni pessime. 

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Anche adesso che le possibilità di vittoria sono scomparse, c’è chi crede che il conflitto vada portato avanti:  Shushi era già stata persa durante il conflitto del 1992-1994, ma  poi quella guerra era stata vinta. Anche la moglie di Pashinyan, Anna Hakobyan, è andata a combattere a fine ottobre nel Nagorno-Karabakh, ha scritto su Facebook che anche lei ha ricevuto l’ordine di rientrare  a Erevan, ma che non tornerà indietro.

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