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Il foglio del weekend

L’età della derisione

Maurizio Crippa

Ridere è sempre stato divino, e dunque umano. Ma ora corre il rischio di diventare diabolico. Come siamo passati dal riso liberatorio all’offesa del nemico. Non c’entrano solo Trump e Charlie Hebdo. Una storia

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Potrebbe diventare un grande presidente, ha l’età per farlo, ma è probabile che nell’orecchio della gente resterà per sempre Sleepy Joe, secondo il nickname sarcastico che il suo predecessore, battutista compulsivo, gli aveva appiccicato in fronte, anzi sulla mascherina. E’ vero che un paio di volte Biden aveva provato a replicare “sei un clown”, ma per l’epiteto insultante, quello che fa sghignazzare sul divano i tuoi tifosi, ci vuole un talento particolare. Passerà molto tempo prima che si riaffacci alla Casa Bianca un presidente che usa i social con la spregiudicatezza di un ragazzino su TikTok, ma negli scorsi anni la derisione come moneta corrente del linguaggio pubblico ha fatto un salto di qualità da cui sarà difficile retrocedere. Dopo il presidente che chiamava Elizabeth Warren “Fake Pocahontas” e Kim Jong-un “Rocket Man”. Da sganasciarsi, i suoi.

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Potrebbe diventare un grande presidente, ha l’età per farlo, ma è probabile che nell’orecchio della gente resterà per sempre Sleepy Joe, secondo il nickname sarcastico che il suo predecessore, battutista compulsivo, gli aveva appiccicato in fronte, anzi sulla mascherina. E’ vero che un paio di volte Biden aveva provato a replicare “sei un clown”, ma per l’epiteto insultante, quello che fa sghignazzare sul divano i tuoi tifosi, ci vuole un talento particolare. Passerà molto tempo prima che si riaffacci alla Casa Bianca un presidente che usa i social con la spregiudicatezza di un ragazzino su TikTok, ma negli scorsi anni la derisione come moneta corrente del linguaggio pubblico ha fatto un salto di qualità da cui sarà difficile retrocedere. Dopo il presidente che chiamava Elizabeth Warren “Fake Pocahontas” e Kim Jong-un “Rocket Man”. Da sganasciarsi, i suoi.

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Del resto anche i Simpson avevano declinato i “50 motivi per non votare Trump”, facendo un salto in avanti nella trasformazione della comicità in arma contundente. Poi ci sono i nostri Trump in sedicesimo come Vincenzo De Luca, che fa cabaret sulla bambina che voleva andare a scuola, “un ogm cresciuta dalla mamma con latte al plutonio”. Poi a volte succede che un comico fondi un partito e arrivi al governo, e allora la cosa inizia a fare meno ridere.

  
“Gli sono grata per le risate”, ha detto qualche giorno fa Stefania Sandrelli del suo caro amico Gigi Proietti: “Lui adorava far ridere tutti, era un po’ la missione”. Sono le parole forse più azzeccate, fra le mille e tutte allo stesso tono: tutti amavano Gigi Proietti perché possedeva quel dono intimo e a un tempo contagioso: far ridere senza mai deridere niente e nessuno.

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Ridere o deridere, due estremi dentro quel grande mistero ancestrale, ma che è tutt’uno con gli esseri umani: la facoltà di ridere. E’ vero, come sostengono molti osservatori del partito degli accigliati, che le nostre società stanno perdendo la capacità di ridere nel suo senso gratuito, liberatorio, fosse solo per liberare endorfine. I meme sono diventati i nuovi totem, il ricorso alla battuta è compulsivo, i comici sono star. Eppure a farla da padrona è l’altra faccia della luna, non il dono di Gigi Proietti, ma la risata contro gli altri. Konrad Lorenz, che ci studiava dalla parte degli animali, sosteneva che “il riso produce simultaneamente un forte sentimento di fratellanza fra i partecipanti a un gruppo e aggressività collettiva verso gli estranei”. Si ride a squadre. E’ sempre stato parte del gioco, ma a un certo punto della nostra evoluzione storica qualcosa ci ha sbilanciati verso l’aggressività.

  
Cominciarono gli dèi a ridere, come narrano unanimi molti miti antichi e alchemici, un “big bang comico e cosmico”, e forse non hanno ancora finito. Oppure hanno lasciato l’incarico ai diavoli. Georges Minois è uno storico delle idee francese abituato ai grandi affreschi d’insieme, ha scritto la storia della vecchiaia e quella dell’inferno, e una ventina d’anni fa si è dedicato all’impresa di mettere ordine tra le risate. Il suo Storia del riso e della derisione (in Italia era stato pubblicato da Dedalo) è un volo d’uccello lungo centinaia di pagine, sopra tutti i modi in cui gli umani hanno declinato questa loro facoltà, cercando di capirne anche l’evoluzione sociale e l’uso politico. Il riso apotropaico, la satira politica e sociale, l’esplosione carnevalesca, lo scherno hanno attraversato tutte le società. Anche la blasfemia, il ridere di Dio, fa parte del pacchetto. Anzi ha un ruolo cruciale. 

   
Ora che le elezioni americane sono passate, uno degli argomenti centrali e più drammatici, c’è poco da ridere, per noi europei è proprio il modo in cui si può liberamente ridere di Dio. Le vignette di Charlie Hebdo hanno scatenato la guerra di religione (unilaterale) che sappiamo. Emmanuel Macron ha ribadito che nella Francia della République la blasfemia è un diritto umano assoluto, del resto nella storia della Francia l’arma della risata contro la religione ha avuto un ruolo cruciale. Non hanno ovviamente ragione i terroristi mozzateste e nemmeno il sultano Erdogan, quando dice  che “nessun musulmano può essere deriso”. Ma rimane questo punto, che non parla delle religioni oscurantiste o delle dittature occhiute (ridere del Partito in Cina non è una cosa particolarmente safe), ma parla delle nostre società: le vignette di Charlie Hebdo, al pari dei twittacci di Trump, non sono fatti per far ridere, per divertire la propria squadra. Hanno lo scopo di colpire il nemico. Che poi i bersagli se la meritino tutta, è altro aspetto della vicenda. Il punto è l’utilizzo della derisione come arma pubblica legittima. Il cristianesimo perse la sua partita sulla blasfemia qualche secolo fa, poco dopo che nella sua Summa Tommaso d’Aquino aveva sentenziato che “la derisione è peccato mortale, ed è più grave dell’insulto aperto: perché chi insulta mostra di prendere sul serio le altrui miserie, mentre chi le deride le prende in scherzo. La derisione è tanto più grave, quanto maggiore è il rispetto dovuto alla persona derisa. Perciò è peccato gravissimo deridere Dio e le cose di Dio”. Era bastato Boccaccio. Ma già nel 1490 il basso clero di Reims, nel giorno dei Santi Innocenti, ridicolizzò per le strade i nuovi lussuosi paramenti degli alti ecclesiastici, facendo baccano davanti alle loro case. Il simbolico tirar giù dagli altari le statue era già iniziato.

  

Oggi si ride e si motteggia davanti ai monumenti imbrattati e si scatena l’irrisione contro i nuovi nemici del popolo. La situazione, nei paesi liberi e senza freni inibitori, è diventata così complessa  che ovunque si tenta di regolamentare, di mettere argini al bullismo, al body shaming, a tutto ciò che può suonare irrisione razziale o di una minoranza. E i nuovi tabù sono inviolabili. Oggi Stanlio non potrebbe più costruire le sue esilaranti gag tirando in mezzo il corpaccione del suo amico Ollio, le barzellette a sfondo sessuale (che originano dalla notte dei tempi) sono bandite non solo dal bon ton ma dalla regolamentazione dei diritti di genere. Le caricature etniche o anche soltanto vernacolare non sono ammesse nemmeno come pratica  carnevalesca (ci andò di mezzo persino il correttissimo premier canadese Justin Trudeau). Persino un qualunquista della risata come Checco Zalone rischia accuse di scorrettismo. Ma all’inverso la character assassination di un avversario politico, o di un mostro sociale designato (balance ton porc) è legittimata dalla satira più sfrenata e dalla libellistica caricaturale via social e la derisione bullistica è una delle piaghe adolescenziali. La pandemia ha messo in quarantena i comici, ma sta facendo salire al massimo i nostri sghignazzi privati. I nuovi re del sarcasmo sono i virologi, quando si accusano tra loro. Non ci divertiamo più a ridere, ci serve lo sfogo.

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Tutto questo ha una data d’inizio. Minois ricostruisce minuziosamente il lungo percorso. E scopre che questa modalità della derisione è figlia dei Lumi e della Rivoluzione, nasce cioè dalla rottura profonda di un contratto sociale che aveva resistito a tutti i buffoni e alle più abrasive satire del teatro e degli scrittori. Il riso del carnevale medievale, reazione ai musi lunghi del cristianesimo, è una rottura rituale di schemi ma dentro una società gerarchica e che si sarebbe ricomposta la mattina delle Ceneri. La parola charivari indica una serie di pratiche popolari che andavano ben oltre le date del carnevale, chiassose e spesso contundenti, l’antenato di tutti i body shaming e gli sfottò a carattere sessuale. Si schiamazzava di notte per le strade mettendo in piazza con allusioni pesanti i comportamenti devianti di questo o di quella, il marito becco o la moglie megera che picchia il poveraccio, gli ubriaconi del paese, i ladri o i taccagni, e ogni deviazione dalla norma sessuale. Nella Francia e nella Germania dell’età di mezzo bande di giovinastri si portavano appresso i gatti e li torturavano per farli urlare e aumentare così la baraonda. Rituali millenari, che in forme appena più evolute trapassavano nelle feste dell’aristocrazia, dei borghesi e nei palazzi dei prelati. Poi tutto tornava (quasi) come prima, all’interno di un corpo sociale che l’ordinato disordine della risata aveva sconvolto. Certo, negli anni Sessanta del secolo scorso Michail Bachtin ha segnato la cultura mainstream occidentale con la sua teoria del ribaltamento carnevalesco, Rabelais e Gargantua e Pantagruel, la sua idea che nel carnevale esista invece un sovvertimento dei valori reale che finalmente, a un certo punto della storia, la rivoluzione della modernità ha inverato. Ma guitti, maschere e buffoni sono sempre esistiti, non hanno mai fatto rivoluzioni e non sono mai finiti impiccati. Ancora nel 1927 studiosi inglesi e francesi si disputavano la paternità dei flabieux, raccontini comici in versi quasi sempre volgari e a sfondo sessuale, quel genere di porcate sboccacciate giunte fino alla nostra epoca per il tramite di Alvaro Vitali, ma cui probabilmente il politicamente corretto ha messo la parola fine.

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Il punto di rottura di questo patto antico tra la risata e l’ordine costituito è l’età del Luni e della Rivoluzione. Erano gli aristocratici, e poi i borghesi à la Voltaire a padroneggiare i modi del riso e della derisione, ma presto il “carnevale della rivoluzione”, più violento e popolano, prese il sopravvento, seppure il primo regolamento dei lavori della Costituente vietasse esplicitamente le risate in assemblea. Ma dopo poche sedute, il 3 agosto 1789, un prete del basso clero si alzò per proporre che l’assise dovesse dotarsi di un cappellano e che ogni deputato dovesse confessarsi prima di fare una qualsiasi proposta di legge. “L’assemblea scoppiò in una fragorosa risata”, narrano le cronache, e poiché il prete insisteva nel suo intervento, frizzi e lazzi non finirono finché la seduta non fu sospesa. Il popolo si prende presto la parola, le caricature esistevano già, ma nell’esplosione mediatica rivoluzionaria (una sorta di liberi tutti sui social di allora) diventano uno dei principali mezzi di sputtanamento di massa. Per la prima volta nella storia la derisione diventa “un importante processo di emarginazione, di esclusione morale, politica, attribuendo in modo molto concreto un valore degenerativo all’avversario”.  Le processioni con fantocci e schiamazzi, o peggio ancora con le teste mozzate sulle picche e i canti sono una costante del Terrore. Già prima della sua decapitazione, “il fantoccio di Luigi XVI è divenuto il re del carnevale, il re impotente, mangione e beone, il re maiale”. La sua caricatura è portata nelle strade, “il corpo del re, un tempo vicino al sacro, diventa un corpo “dagli orifizi grotteschi”. Poi verranno l’Ottocento e il Novecento, la satira e la pubblicistica politica affinano le armi, vengono in qualche modo normate. Ridere nel Secolo breve è stato (ma lo è tuttora, negli stati senza libertà) anche una resistenza e una opposizione ai regimi ditttoriali. André Breton parlò del riso come di “una rivolta superiore dello spirito”. Nelle democrazie occidentali la nascita della politica-spettacolo ha invece per così dire normalizzato i rapporti tra l’irriverenza e la sfera politica, perché “un potere che non accetta lo scherno è un potere minacciato, disprezzato, condannato a sparire”. Mentre, scrive Eric Blondel: “Le società malate, le istituzioni moribonde si i irrigidiscono e si sacralizzano: si sento alla mercé del ridicolo”. Il riso è dunque un ottimo antivirus, una medicina.

 
Vent’anni fa, all’epoca del libro di Minois, filosofi e sociologi scommettevano su un inaridimento della risata come strumento contundente. Secondo Bernard Sarrazine, autore di uno studio su “il riso e il sacro”, la laicizzazione rischiava “di banalizzare questa derisione divenuta troppo facile, poiché la trasgressione non ferire più nessuno. Quando il conflitto di valori cosa perché ormai una cosa vale l’altra e né Dio né il Diavolo esistono più, cosa ne sarà del riso?”. Andava bene alle nostre latitudini figlie dell’Illuminismo; in altri contesti, la storia si è incaricata di smentire. Ma c’è un altro aspetto che racconta di un ulteriore cambio d’epoca, più vicino a noi. “Il riso è stato l’oppio del XX secolo, da Dada a Monty Python, una dolce droga che si insinua in ogni anfratto e ha permesso all’umanità di resistere alla sua vergogna”, scrive Minois, alludendo alla “fatica di ridere” di molti artisti, di molti filosofi. Lo storico annota che su crinale del nuovo millennio stiamo diventando una civiltà che ride meno che in passato, mentre cresce un predominio del deridere. 

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Forse, il prototipo della nuova risata sociale è Joker, il disadattato Arthur Fleck che soffre di attacchi di riso patologico che gli impediscono le normali soddisfazioni sociali, e che rendono la sua vocazione a divertire il pubblico una trappola distruttiva (del resto, non è un clown il protagonista di It di Stephen King?). Ridere è sempre più una forma di culture war  condotta con altri mezzi. Presuppone, o produce, una frattura insanabile tra le persone. Certo, esiste anche la Giornata mondiale della risata, fondata nel 1998 da un terapeuta indiano che sostiene che la risata produca sensazioni positive e faccia bene alla salute. Oppure ci vorrebbe un nuovo Gigi Proietti, e una risata non ci seppellirà.

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