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Le elezioni americane viste dalla Cina

Per chi tifa Pechino

Joe Biden è la garanzia di una guerra (non solo commerciale) più soft, ma Donald Trump rafforza il Partito comunista cinese

Giulia Pompili

Il gruppo dei Repubblicani asiatici-americani ha deciso di ufficializzare il supporto per Biden contro “l’irresponsabilità” di Trump, ma in Asia orientale il tycoon è apprezzato soprattutto per il suo atteggiamento da falco anticinese, da Hong Kong all’India

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Il Partito comunista cinese voterebbe Joe Biden alla Casa Bianca. Questa almeno sembrerebbe la scelta più razionale, considerata la guerra – ideologica, commerciale, tecnologica – ingaggiata contro Xi Jinping dal presidente Donald Trump negli ultimi anni della sua presidenza. Biden sembrava la scelta preferita del Partito fino a poco tempo fa, prima che il candidato democratico non iniziasse a svelare la sua strategia sulle questioni in sospeso con Pechino. Il presidente Trump, con la guerra commerciale e le continue accuse contro la Cina – a volte legittime, altre volte meno, quasi mai nei toni – ha di certo contribuito ad aumentare il “clima da Guerra Fredda” spesso citato dai rappresentanti del Partito comunista cinese, ma con Biden alla presidenza non è detto che tutto cambi.

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Il Partito comunista cinese voterebbe Joe Biden alla Casa Bianca. Questa almeno sembrerebbe la scelta più razionale, considerata la guerra – ideologica, commerciale, tecnologica – ingaggiata contro Xi Jinping dal presidente Donald Trump negli ultimi anni della sua presidenza. Biden sembrava la scelta preferita del Partito fino a poco tempo fa, prima che il candidato democratico non iniziasse a svelare la sua strategia sulle questioni in sospeso con Pechino. Il presidente Trump, con la guerra commerciale e le continue accuse contro la Cina – a volte legittime, altre volte meno, quasi mai nei toni – ha di certo contribuito ad aumentare il “clima da Guerra Fredda” spesso citato dai rappresentanti del Partito comunista cinese, ma con Biden alla presidenza non è detto che tutto cambi.

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Secondo molti analisti la competizione tra America e Cina, specialmente quella a livello tecnologico, resterà lì, così come il tentativo da parte di Washington di riacquistare la sua tradizionale influenza strategica in molte aree del mondo, negli ultimi anni lasciate un po’ all’improvvisazione. Venerdì scorso il gruppo dei Repubblicani asiatici-americani, il cosiddetto Gop asiatico, ha deciso di ufficializzare il suo supporto per Biden contro “l’irresponsabilità” di Trump: “Quando il presidente dice apertamente ai Proud Boys, classificati dall’Fbi come un gruppo estremista, di stare all’erta e stare pronti, ci ricorda le Guardie Rosse durante la Rivoluzione Culturale, quando il dittatore Mao invitava i suoi sostenitori a reprimere le opinioni politiche diverse perché considerate non patriottiche”, si legge nel comunicato. Biden sarà di sicuro più cauto nei toni quando si tratta di Cina, ma a differenza del Gop asiatico non è certo che questo convenga del tutto alla Cina, e anche al resto dell’Asia orientale. 

 

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“Almeno per la Cina il presidente Donald Trump è un regalo”, ha scritto sul Japan Times Minxin Pei, commentatore americano di origini asiatiche e docente al Claremont McKenna College. Certo, scrive Pei, la guerra commerciale e quella tecnologica sono state subìte anche da Pechino, così come il suo sostegno a Taiwan, a Hong Kong, le sanzioni contro i dirigenti responsabili del programma di internamento degli uiguri nello Xinjiang. Ma il caos elettorale che potrebbe provocare Trump a seguito di un risultato delle elezioni non a suo favore potrebbe essere l’ennesimo “regalo” alla Cina: “Se Trump dovesse continuare con la minaccia di mettere in discussione la volontà degli elettori americani, l’attrattiva per la democrazia americana potrebbe andare in frantumi per chi vive in paesi dittatoriali, Cina inclusa”.

 

Sfruttare il momento della crisi della più influente democrazia del mondo è un metodo che abbiamo già visto fare dagli “influencer” di Pechino durante il primo dibattito presidenziale: sui social network, ma anche su giornali come il Global Times, si sottolineava spesso quanto le lezioni di democrazia dell’America (per esempio sui fatti di Hong Kong) fossero del tutto incoerenti. Quando un modello cade, a sfruttare l’occasione è il suo modello opposto, ed è per questo che, per diversi analisti, una nuova presidenza Trump potrebbe in realtà rafforzare, almeno internamente, il Partito comunista cinese. 

 

“Parlare con Wan Chin, che ha una trasmissione di politica su YouTube, è come sentire l’eco di una radio dei conservatori americani”, ha scritto sull’Atlantic Timothy McLaughlin, “mi ha detto che c’è una ‘invasione’ di immigrati che sta attraversando il confine, che occupano le case popolari e limitano le scarse risorse del governo, il coronavirus è un superbatterio ‘Frankestein’ utilizzato come un’arma da un laboratorio cinese, il ‘metodo Rambo’ del presidente Trump ha finalmente sfidato la Cina per le sue ostilità”. Nell’ex colonia inglese di Hong Kong, dove la battaglia per l’autonomia è finita questa estate, quando Pechino ha imposto la nuova legge sulla Sicurezza nazionale, Wan Chin non è il solo a sostenere Trump. Il tycoon americano si è mosso in ritardo sulle questioni di principio con la Cina – nel libro del suo ex consigliere John Bolton si legge addirittura che in un primo momento avesse lodato Xi Jinping per il suo pugno di ferro su varie questioni – ma adesso ha una posizione più dura contro la Cina rispetto al suo sfidante Biden. In Asia orientale, scrive    McLaughlin, Trump è apprezzato soprattutto per il suo atteggiamento da falco anticinese. Così il candidato repubblicano ha conquistato il supporto di molti non solo a Hong Kong, ma anche in Vietnam, dove il sentimento anticinese monta sempre di più, nelle Filippine, per non parlare dell’India. 

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“In altri tempi, un paio di mani sicure come quelle di Biden sarebbero state di gran lunga preferibili per la dirigenza cinese”, dice al Foglio Giovanni Andornino, ricercatore all’Università di Torino e direttore di OrizzonteCina, “l’ex vicepresidente è un moderato e la prevedibilità degli interlocutori è un valore per Pechino. Tuttavia, in questa fase di consenso bipartisan a Washington sulla necessità di contenere l’ascesa della Cina, una rielezione di Trump può apparire preferibile a chi punti su un’Amministrazione federale statunitense disfunzionale, tanto più nel caso di una maggioranza democratica al Congresso”. Secondo Andornino, “Trump, poi, resta l’uomo d’affari che è sempre stato e in caso di rielezione ci sarà un futuro imprenditoriale a cui pensare nel 2024: la Cina può avere argomenti persuasivi in questo senso e il presidente è certamente dotato del cinismo necessario per nuove giravolte, una volta incassati i dividenti elettorali della tensione di questi mesi”.

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