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La nostra indagine sul campo sulla morte di Andrea Rocchelli

Olga Tokariuk

Una squadra di giornalisti ha trovato una verità diversa sulla fine del fotoreporter italiano in Ucraina, anche grazie a un poligono di tiro. Il racconto in prima persona

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Da 15 anni lavoro come giornalista e mi occupo di Esteri. Ho sempre avuto un rapporto particolare con l’Italia: parlo la lingua, mi sono laureata qui e dal 2013 collaboro come corrispondente da Kiev in Ucraina per diversi media italiani. Ricordo bene il giorno della morte di Andrea Rocchelli e Andrei Mironov a Sloviansk, il 24 maggio 2014. L’Ucraina era in una guerra che la Russia aveva voluto. Si sparava e si moriva. E loro sono finiti in mezzo a quella guerra. Era il loro mestiere raccontare i conflitti e soprattutto i civili nei conflitti. Non li conoscevo di persona, ma erano i primi giornalisti uccisi nella guerra in Ucraina. Ero colpita e addolorata da quella tragedia. Tre anni dopo, nel giugno 2017, all’aeroporto di Bologna viene arrestato Vitaliy Markiv, soldato ucraino con cittadinanza italiana, rientrato per vedere la madre dopo tre anni di servizio nella Guardia Nazionale ucraina. “Arrestato il killer di Andy Rocchelli”, era uno dei titoli sparati dai tg e da alcuni giornali italiani in barba a deontologia e presunzione di innocenza.

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Da 15 anni lavoro come giornalista e mi occupo di Esteri. Ho sempre avuto un rapporto particolare con l’Italia: parlo la lingua, mi sono laureata qui e dal 2013 collaboro come corrispondente da Kiev in Ucraina per diversi media italiani. Ricordo bene il giorno della morte di Andrea Rocchelli e Andrei Mironov a Sloviansk, il 24 maggio 2014. L’Ucraina era in una guerra che la Russia aveva voluto. Si sparava e si moriva. E loro sono finiti in mezzo a quella guerra. Era il loro mestiere raccontare i conflitti e soprattutto i civili nei conflitti. Non li conoscevo di persona, ma erano i primi giornalisti uccisi nella guerra in Ucraina. Ero colpita e addolorata da quella tragedia. Tre anni dopo, nel giugno 2017, all’aeroporto di Bologna viene arrestato Vitaliy Markiv, soldato ucraino con cittadinanza italiana, rientrato per vedere la madre dopo tre anni di servizio nella Guardia Nazionale ucraina. “Arrestato il killer di Andy Rocchelli”, era uno dei titoli sparati dai tg e da alcuni giornali italiani in barba a deontologia e presunzione di innocenza.

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Markiv viene identificato e accusato di aver ucciso Rocchelli in base a un articolo scritto da Ilaria Morani e pubblicato sulla versione online del Corriere della Sera il giorno seguente alla morte di Andy e Andrea, il 25 maggio. Una telefonata, un’intervista fatta a un anonimo soldato ucraino attestato su una collina a Sloviansk, definito “comandante”, con tanto di virgolettati che dicono: “Appena vediamo un movimento carichiamo l'artiglieria pesante. Così è successo con l’auto dei due giornalisti e dell’interprete. Noi da qui spariamo nell’arco di un chilometro e mezzo”. L’articolo scivola via come acqua, nessuno ci fa caso al momento. Verrà ripreso con le indagini del 2016 portate avanti dal sostituto procuratore di Pavia Andrea Zanoncelli. Ho seguito il processo contro Markiv per la tv indipendente ucraina Hromadske. A luglio 2019 è arrivata la sentenza: la Corte d’Assise di Pavia, la città natale di Andy Rocchelli, ha ritenuto che Markiv fosse colpevole. La giuria popolare ha ritenuto lui, tra centoquaranta commilitoni, il responsabile di un attacco “mirato e deliberato” contro il gruppo di giornalisti.

 

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Ma qualcosa non quadrava: nessuna indagine sul posto, testimonianze di giornalisti che hanno parlato con Markiv contraddittorie, ricostruzioni fallaci e a volte senza nesso logico, prove video non prese in considerazione, utilizzo di fonti aperte senza criteri definiti. Almeno questa è stata l’impressione mia e di altri giornalisti italiani, con cui abbiamo discusso il caso. Così assieme a Cristiano Tinazzi, Danilo Elia e Ruben Lagattolla abbiamo deciso di fare la nostra inchiesta. Quando abbiamo cominciato a lavorare sul documentario non avevamo idea dove ci avrebbe portato. Avevamo molte domande e abbiamo cercato risposte sul luogo degli eventi. Abbiamo parlato con testimoni diretti e con decine di persone informate sui fatti. Molti sono giornalisti presenti in quel periodo a Sloviansk. Non avevamo pregiudizi o preconcetti, eravamo aperti a qualsiasi esito.

 

Abbiamo iniziato a lavorare mettendo dei soldi di tasca nostra, con l’idea di finanziare la produzione del documentario attraverso un crowdfunding. Abbiamo fatto tre campagne di raccolta fondi – una su una piattaforma italiana, un’altra ucraina, una terza su facebook. Contemporaneamente, abbiamo presentato domande a varie fondazioni internazionali che finanziano lavori di inchiesta e abbiamo vinto un grant della fondazione internazionale Justice for Journalists. Abbiamo studiato le carte del processo, centinaia di pagine, e con quelle in mano siamo partiti per Sloviansk, la prima volta a fine ottobre 2019. Lì abbiamo ispezionato il luogo della morte di Rocchelli e Mironov, il fossato vicino alla fabbrica Zeus ceramica e il passaggio ferroviario. Questi luoghi a maggio 2014 erano occupati dalle forze separatiste filorusse. Era la zona del fronte, la più calda, dove si combatteva quotidianamente tra aprile e maggio 2014. Abbiamo scoperto che c’erano due fabbriche di ceramica vicino a quel fossato e che all’epoca erano entrambe basi militari dei separatisti. Con mortai e artiglieria semovente i combattenti filorussi cercavano di colpire la collina di Karachun, situata a circadue chilometri di distanza, dove erano stazionate la Guardia nazionale e l’esercito ucraino nel tentativo di proteggere un ripetitore televisivo. Un punto strategico. Gli scambi di colpi erano continui. Proprio dalla collina, secondo la sentenza, sarebbero stati attivati i mortai che hanno ucciso Rocchelli e Mironov.

 

Siamo riusciti a trovare altri due testimoni oculari di quell’attacco. L’autista del taxi che ha portato i giornalisti al passaggio a livello, e un civile che passava di lì in quel momento. Nessuno di loro è stato sentito in tribunale. Le loro interviste aggiungono importanti pezzi per ricostruire la tragedia e in alcuni punti collidono con l’unica testimonianza chiave sentita in aula, quella del fotografo francese William Roguelon, rimasto ferito nell’attacco. Siamo tornati a Sloviansk una seconda volta nel dicembre 2019 e una terza a maggio 2020, dove abbiamo condotto un’investigazione tecnico scientifica con lo scopo di verificare le ricostruzioni fatte in aula. Sulla collina di Karachun, abbiamo condotto dei test di visibilità usando vari tipi di ottiche, anche molto più potenti di quelle che avevano in dotazione la Guardia nazionale e l’esercito ucraino in quel periodo. In ultimo, abbiamo geomappato diversi chilometri quadrati di territorio elaborando una mappa di elevazione digitale del terreno. Abbiamo coinvolto degli esperti indipendenti italiani che non avevano nessun interesse nella vicenda. Il generale di Divisione Luigi Scollo, ex comandante della Brigata Garibaldi, Gianluca Tiepolo, istruttore di tiro, e il vigile del fuoco esperto in cartografia Paolo Fusinaz.

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Fusinaz ha inserito nella mappa digitale tutti i punti con le coordinate stabilite durante il processo, cioé quello della postazione di Markiv e la posizione gps rilevata dal Roguelon in un filmato realizzato durante la sparatoria. E anche il punto di fuga segnato su mappa sempre da Roguelon al processo. Abbiamo poi eseguito delle prove di tiro in un poligono militare in Ucraina. I poligoni civili hanno lunghezze che non vanno generalmente oltre i trecento metri e usare un poligono militare in Italia con armi da guerra sarebbe stato impossibile. Quindi abbiamo chiesto una autorizzazione al ministero degli Interni ucraino. Il personale della postazione di tiro era il nostro e le armi sono state tutte controllate e tarate sui 100 metri prima di utilizzarle. La distanza esatta tra la postazione del soldato Markiv e quella del punto segnato da Roguelon nel fossato secondo i punti gps è di 1875 metri. Le prove di tiro su una distanza massima di 1500 metri, quella consentita dal poligono, hanno dimostrato che era impossibile mirare e colpire un bersaglio a quella distanza con un fucile d’assalto Ak-74 in dotazione alla fanteria ucraina. Il generale Luigi Scollo ha fornito importanti informazioni sulle distanze dei colpi in partenza uditi nel video girato dal francese Roguelon nel fossato dove il gruppo si era riparato. Lì una delle vittime, Andrei Mironov, parla con l’autista e dice che sono finiti sotto il fuoco incrociato e che c’è un mortaio vicino. Il generale ha dato il suo parere anche sull’utilizzo e sui limiti d’impiego delle ottiche militari e del gruppo mortai e, soprattutto, sull’utilizzo dell’osservatore, che si trova di norma in posizione avanzata rispetto al resto delle truppe.

 

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Tutto questo lavoro di ricerca porta a smontare, con i fatti, tutto quanto ricostruito in aula in via teorica. Per il nostro documentario volevamo sentire anche altri giornalisti che erano a Sloviansk in quel periodo. Non c’è stato nessun problema a fare interviste con giornalisti francesi, olandesi, americani, bielorussi e ucraini: si sono resi disponibili e sono stati felici di contribuire all’inchiesta. La maggior parte degli italiani invece ha preferito non esporsi. Fin dall’inizio il nostro scopo, oltre a quello di fare l’inchiesta sul campo, era quello di dar voce a tutti le parti coinvolte: la famiglia Rocchelli, gli avvocati di parte civile, la Federazione nazionale della stampa italiana tramite il presidente Giuseppe Giulietti, Paolo Perucchini, presidente dell'Associazione Lombarda dei Giornalisti, l'agenzia fotografica di Andy, Cesura. Abbiamo anche contattato i testimoni chiave del processo di primo grado: Ilaria Morani, Marcello Fauci e William Roguelon. Purtroppo nessuno di loro ha accettato di farsi intervistare. Invece, dopo un primo diniego, abbiamo ricevuto il consenso dei parenti di Andrei Mironov, che oggi sostengono il documentario.

 

D’intesa con loro, abbiamo cambiato nome alla nostra inchiesta, che oggi si chiama “Crossfire” e uscirà per fine anno. Abbiamo presentato una versione tecnica del lavoro di inchiesta lo scorso 1 settembre al Senato della Repubblica, in presenza di Roberto Rampi, senatore del PD, Silvja Manzi dei Radicali italiani e Eleonora Mongelli, vicepresidente della Federazione Italiana Diritti Umani, che ha patrocinato il documentario. Il nostro lavoro ha anche ottenuto il patrocinio di altre ong che si occupano dei diritti umani, tra cui Open Dialogue Foundation e Nessuno Tocchi Caino. Ultimamente però la nostra inchiesta è diventata controversa, dopo che parte della stampa italiana ne ha parlato con curiosità e interesse. Forse per quello, è partita una campagna di diffamazione e di critiche feroci. Ora siamo accusati di essere parziali e stipendiati da qualcuno. E’ una campagna di diffamazione che parte da Rossiya 1, la tv del Cremlino, che ha confezionato un servizio soltanto per screditarci, per finire con gruppi politici italiani al cui interno si trovano ex miliziani andati a combattere nelle brigate internazionali con i separatisti del Donbass, passando per siti internet che fanno l’apologia di regimi dittatoriali. Un mucchio di articoli pieni di inesattezze.

 

Stalking, minacce anche. Il nostro film, a detta di queste persone, ora sarebbe un “film sbagliato”. Stupisce che Articolo 21, associazione che si batte per la libertà di informazione e di stampa, vicina alla FNSI, condivida questi articoli per attaccare dei colleghi che stanno soltanto facendo il loro lavoro. In un attacco più recente, Articolo 21 ci accusa – di nuovo senza alcuna prova – di essere finanziati dalla Guardia nazionale ucraina. Si dice pure che il nostro film “vuole giustificare’ un omicidio”, quello di Andrea Rocchelli. Attacchi che sporcano, macchiano, offendono. Ognuno dei membri del team di Crossfire è un giornalista con grande esperienza nelle aree di crisi. Valutiamo la nostra reputazione e indipendenza più di qualsiasi altra cosa. Troviamo inaccettabili attacchi al nostro lavoro e i tentativi di screditarci o collegarci a governi stranieri.

 

Stupisce che tentativi di ostacolare, censurare e screditare il nostro lavoro in Italia arrivino dalle stesse persone o organizzazioni che dovrebbero proteggere il diritto dei giornalisti di fare informazione, e che dicono di farlo nel nome di un collega deceduto. Siamo grati invece per la solidarietà della Federazione europea dei giornalisti, il cui presidente Ricardo Gutierrez ha espresso sostegno al nostro team. Questo è un importante riconoscimento internazionale del nostro lavoro.

 

Olga Tokariuk, giornalista ucraina, dal 2013 collabora con vari media italiani e internazionali: Rai, gruppo Mediaset, Limes, Formiche (Italia), NPR, Buzzfeed (Stati Uniti), RSI (Svizzera). Nel 2014-2015 è stata la corrispondente dell’ANSA a Kiev.

 

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