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Come finisce la guerra nel Nagorno-Karabakh

Daniele Ranieri

Il finale del conflitto è tutto in in un patto discreto fra il turco Erdogan e il russo Putin che riguarda aree fuori dalla regione contesa

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La mattina di domenica 27 settembre l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva militare per prendere un territorio che considera suo, il Nagorno Karabakh. Si può pensare che abbiano ragione gli azeri oppure si può pensare che abbiano ragione gli armeni, che chiamano quella regione casa perché sono la maggioranza della popolazione, ma questo non è un articolo per dibattere le ragioni dell’una o dell’altra parte. Il dato di fatto che è gli azeri stanno vincendo la guerra. Se quello che abbiamo visto in meno di un mese vale come indicazione sono superiori agli armeni. Da quando hanno cominciato hanno sempre guadagnato territorio. Villaggio dopo villaggio, collina dopo collina, stanno spostando la linea del fronte in avanti – che era il loro obiettivo. Anche la lista delle perdite subite dalle forze armene che stanno in difesa parla chiaro. A questo ritmo, l’esito può essere soltanto una vittoria per gli azeri almeno fino a quando il fronte, dopo avere mangiato molto territorio, non arriverà in zone più montuose rispetto a ora, dove le forze armene potranno sfruttare di più il terreno come fecero nella guerra del 1992-1994.

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La mattina di domenica 27 settembre l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva militare per prendere un territorio che considera suo, il Nagorno Karabakh. Si può pensare che abbiano ragione gli azeri oppure si può pensare che abbiano ragione gli armeni, che chiamano quella regione casa perché sono la maggioranza della popolazione, ma questo non è un articolo per dibattere le ragioni dell’una o dell’altra parte. Il dato di fatto che è gli azeri stanno vincendo la guerra. Se quello che abbiamo visto in meno di un mese vale come indicazione sono superiori agli armeni. Da quando hanno cominciato hanno sempre guadagnato territorio. Villaggio dopo villaggio, collina dopo collina, stanno spostando la linea del fronte in avanti – che era il loro obiettivo. Anche la lista delle perdite subite dalle forze armene che stanno in difesa parla chiaro. A questo ritmo, l’esito può essere soltanto una vittoria per gli azeri almeno fino a quando il fronte, dopo avere mangiato molto territorio, non arriverà in zone più montuose rispetto a ora, dove le forze armene potranno sfruttare di più il terreno come fecero nella guerra del 1992-1994.

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E’ molto probabile, dice al Foglio Nona Mikhelidze, responsabile del programma Europa orientale e Eurasia dell’Istituto per gli Affari internazionali, che ci sia già un accordo tra Turchia e Russia su come dovrà finire questa guerra nel Nagorno Karabakh. Il presidente turco Erdogan e il presidente russo Putin non sono nuovi a questo tipo di intese, si sono già messi d’accordo con reciproca soddisfazione in altri luoghi. Nel nord della Siria, dove hanno cominciato da nemici su fronti opposti e oggi invece mandano pattuglie miste di soldati russi e turchi a controllare le strade strategiche. In Libia, dove di fatto hanno deciso la fine della guerra civile fra Tripoli e il generale Haftar come se fosse una questione tra loro due, dopo un anno di mediazione diplomatica senza frutti da parte dell’Europa. Se non avessero fatto un negoziato tra loro, è probabile che i libici sarebbero ancora adesso ad ammazzarsi in una guerra semitribale tra gli svincoli alla periferia della capitale.  

 

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Lo hanno fatto anche questa volta. E adesso aspettano che nel Nagorno Karabakh la situazione sul campo arrivi a collimare con quello che hanno già deciso – che è una visione cinica delle cose, perché vuol dire che ci sarà ancora un periodo non meglio specificato di guerra e molte persone nel frattempo moriranno, ma è vicina alla verità. Da settimane ci si interroga sul perché Putin, che nell’area del Caucaso vuole essere considerato quello che dice l’ultima parola, abbia scelto questa linea attendista sulla guerra nel Nagorno Karabakh. E’ che per lui le cose vanno bene così, non è ancora arrivato il momento di interrompere il succedersi degli eventi. Tanto che persino fonti del governo azero ammettono che l’incontro tra azeri e armeni previsto a Washington “non sarà una svolta diplomatica”, e non lo sarà perché il risultato è già stato fissato altrove. In pratica l’incontro negli Stati Uniti è soltanto un tentativo last minute dell’Amministrazione Trump di ottenere un risultato che faccia sembrare il presidente americano un bravo statista, a pochi giorni dalle elezioni americane del 3 novembre. 

 

Un punto di questo accordo fra Erdogan e Putin riguarda senz’altro, dice Mikhelidze, i cinque territori che stanno attorno al Nagorno Karabakh e che sono occupati da forze armene dagli anni Novanta. Sono cinque raion – è un’unità territoriale risalente al tempo dell’Unione sovietica che potremmo tradurre come “distretti” – che gli azeri potrebbero considerare come il traguardo finale da raggiungere in questa offensiva. Quando gli chiediamo se l’offensiva militare è stata lanciata per prendere il controllo di quelle regioni, Hikmati Hajiyev, consigliere per gli Affari esteri del presidente azero Ilham Aliyev, risponde al Foglio che “gli armeni hanno compiuto in quei distretti una campagna di pulizia etnica per cacciare gli azeri, hanno fatto terra bruciata, hanno trasformato settecentomila azeri in rifugiati, che oggi finalmente non si considerano più tali. L’Azerbaigian chiede di negoziare con gli armeni sulla base della risoluzione 884 delle Nazioni Unite”. La 884 è una risoluzione del 1993 che chiede il ritiro degli armeni dai distretti menzionati. 

 

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Il fattore che aiuta in modo decisivo gli azeri in questa offensiva è l’aiuto della Turchia. La Turchia ha mandato prima dell’offensiva contro gli azeri il solito tandem micidiale che usa da un anno per risolvere a suo favore le guerre. Droni e mercenari siriani, pescati fra i gruppi che un tempo combattevano da ribelli contro il presidente siriano Bashar el Assad e adesso sono entrati in una fase di stand by senza fine. I droni turchi Bayraktar di fatto sono stati acquistati dagli azeri, ma secondo molte fonti ci sono consiglieri militari e tecnici turchi assieme agli azeri, per impiegarli al massimo dell’efficacia. I mercenari siriani sono stati trasportati direttamente dal sud della Turchia alle retrovie del fronte prima dell’inizio dell’offensiva azera e questo fa capire che si tratta di un’operazione pianificata assieme alla Turchia. I turchi hanno perfezionato questo tipo di guerra nell’ultimo anno. Prima hanno bloccato un attacco del regime siriano nella regione di Idlib, l’ultima in mano all’opposizione, con un massacro deliberato dei mezzi e delle armi del regime. I droni hanno distrutto centinaia di blindati in pochi giorni, l’attacco è svaporato, continuare sarebbe stato un suicidio. In Libia hanno fatto lo stesso nell’area attorno alla capitale Tripoli, i mercenari siriani a terra facevano da fanteria e i droni in aria distruggevano i mezzi del generale Haftar. E l’artiglieria che conquista, la fanteria occupa, diceva un vecchio detto. Adesso è lo stesso, con i droni al posto dei cannoni. Nel Nagorno Karabakh la ricetta è uguale. Questa è una lista compilata il 20 ottobre, due giorni fa, da un osservatore indipendente che ha contato quello che si vede nei filmati, quindi non sono dati che arrivano da fonti governative – che mentono sempre. I droni turchi hanno distrutto in meno di un mese cinquantasei carri armati, ventitré mezzi blindati, ventinove pezzi d’artiglieria, quarantuno lanciarazzi (s’intende i mezzi che sparano decine di razzi), tredici sistemi missilistici antiaereo, sei radar, ottanta camion. Sulle colline spoglie e prive di ripari del Nagorno Karabakh, i droni turchi stanno facendo il tiro al bersaglio. Numero di droni abbattuti finora: uno. Idlib, Tripoli, alto Karabakh, sono tutte regioni molto circoscritte, piccole, aree dove per i turchi è relativamente facile intervenire e vincere. 

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Gli armeni per tentare di bloccare gli azeri hanno scelto di bombardare le città azere con i missili, come Ganja, trecentomila abitanti, la seconda città dell’Azerbaigian per popolazione. Si tratta di una scelta molto dura, che assomiglia a una ritorsione più che a una tattica militare. L’idea, spiega Mikhelidze, è quella di provocare gli azeri a fare altrettanto e a bombardare il territorio nazionale dell’Armenia – che è diverso da quello del Nagorno Karabakh. Se gli azeri colpissero con i missili le città armene, il governo dell’Armenia potrebbe chiedere alla Russia di intervenire in sua difesa perché fa parte dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, un patto militare fra Russia e altri paesi eurasiatici – che russi e armeni per di più hanno rafforzato nel 2016. Per ora gli azeri non hanno abboccato. 

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