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Lockdown e crescita

L’economia a Pechino riparte, ma il “modello cinese” è un imbroglio

“Restano le incertezze esterne e il rischio di recrudescenza dell’epidemia”. Ma il dirigismo autoritario di Xi Jinping non ammette errori

Giulia Pompili

L’Istituto nazionale di statistica cinese ha annunciato che la Cina è tornata a crescere, grazie anche alla gestione della pandemia. Il risultato è stato celebrato anche per i suoi significati geopolitici, ma il sistema di controllo dell'economia e del virus è inapplicabile altrove

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L’Istituto nazionale di statistica cinese ha annunciato ieri che la Cina è tornata a crescere. Nel terzo trimestre del 2020 il prodotto interno lordo è aumentato del 4,9 per cento: inferiore al 5,2 per cento che era stato annunciato dagli analisti, ma sufficiente per riportare la crescita gennaio-settembre al +0,7 per cento. Nel primo trimestre di quest’anno, la Cina era caduta a -6,8 per cento per la prima volta da quarant’anni, ed era tornata a crescere nel trimestre successivo  soltanto del 3,2 per cento. La notizia diffusa ieri dall’Istituto rende la Cina il primo paese a ritrovare la fase espansiva nel mezzo della pandemia, e il risultato è stato celebrato anche per i suoi significati geopolitici. Nel paese dove tutto è iniziato, per più di due mesi i nuovi contagi da coronavirus sono stati solo d’importazione. Poi, la scorsa settimana, c’è stato un nuovo focolaio di 12 positivi nella città portuale di Qingdao, e nel giro di pochi giorni sono state testate quasi dieci milioni di persone. Ma adesso tutto sembra sotto controllo, i ristoranti sono pieni, le discoteche pure. Ma possiamo parlare davvero di un “modello cinese”? La risposta è no. 

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L’Istituto nazionale di statistica cinese ha annunciato ieri che la Cina è tornata a crescere. Nel terzo trimestre del 2020 il prodotto interno lordo è aumentato del 4,9 per cento: inferiore al 5,2 per cento che era stato annunciato dagli analisti, ma sufficiente per riportare la crescita gennaio-settembre al +0,7 per cento. Nel primo trimestre di quest’anno, la Cina era caduta a -6,8 per cento per la prima volta da quarant’anni, ed era tornata a crescere nel trimestre successivo  soltanto del 3,2 per cento. La notizia diffusa ieri dall’Istituto rende la Cina il primo paese a ritrovare la fase espansiva nel mezzo della pandemia, e il risultato è stato celebrato anche per i suoi significati geopolitici. Nel paese dove tutto è iniziato, per più di due mesi i nuovi contagi da coronavirus sono stati solo d’importazione. Poi, la scorsa settimana, c’è stato un nuovo focolaio di 12 positivi nella città portuale di Qingdao, e nel giro di pochi giorni sono state testate quasi dieci milioni di persone. Ma adesso tutto sembra sotto controllo, i ristoranti sono pieni, le discoteche pure. Ma possiamo parlare davvero di un “modello cinese”? La risposta è no. 


Liu Aihua, portavoce dell’Istituto, ha detto ieri durante una conferenza stampa che “la rapida ripresa della Cina è stata la conseguenza dei suoi rigorosi lockdown, dei test di massa, del monitoraggio della popolazione, del fatto che un’economia forte può permettersi di essere in qualche modo isolata e di portare a termine stimoli fiscali attraverso l’espansione del credito”. Pechino riconosce che il grande successo economico della Cina è una conseguenza del suo modello di controllo dell’epidemia, che ha fatto superare anche la crisi della fine dello scorso anno, provocata dalla guerra commerciale con l’America. Quel modello di controllo, però, è proprio del sistema autoritario cinese, quindi inapplicabile in luoghi democratici. E’ fatto di controllo dell’opinione pubblica, di controllo personale e autoritario dei cittadini, e una fondamentale inchiesta in sei parti iniziata ieri dal Financial Times, che si chiama “Il mondo poteva prepararsi?”, inizia proprio con una lunghissima indagine su Wuhan. E su tutto quello che è andato storto nel primo mese dell’epidemia, soprattutto per le colpe politiche dei funzionari locali, del governo di Pechino, fino all’Organizzazione mondiale della sanità. Allo stesso tempo, la Cina continua a ostacolare l’indagine internazionale indipendente sull’origine della pandemia.  


A differenza di altri media, come il Global Times, celebrativi sul “successo cinese”, il Quotidiano del popolo alla fine del suo articolo ieri segnalava la cautela auspicata dagli analisti: “Restano le incertezze esterne e il rischio di recrudescenza dell’epidemia”. Ma nel frattempo in Cina tutto sembra andare a gonfie vele: i consumi interni sono ripartiti, la produzione industriale è in forte ripresa. E soprattutto crescono le esportazioni – a settembre +9,9 per cento su base annua – specialmente quelle di tessile, prodotti medicali, dispositivi di protezione e reagenti, tecnologia di consumo: cioè tutto ciò di cui il mondo aveva bisogno qualche mese fa. Trasformare la crisi in un’opportunità è quello che avrebbe fatto qualunque potenza economica, ma a che prezzo? Negli ultimi mesi la Cina ha aumentato l’import di ferro dal Brasile, di mais e maiale dagli Stati Uniti e di olio di palma dalla Malesia, ha scritto Keith Bradsher sul New York Times, e questo “ha aiutato a invertire il crollo dei prezzi delle materie prime la scorsa primavera e ha attenuato l’impatto della pandemia su alcuni settori”, ma Pechino, che contribuisce per il 30 per cento della crescita globale, in questa fase “ha fatto meno per aiutare il resto del mondo: le sue importazioni non sono aumentate tanto quanto le sue esportazioni. Questo sistema ha creato posti di lavoro in Cina, ma ha frenato la crescita altrove”. Il modello economico cinese è quello di un paese autoritario, con un governo dirigista, e così il suo metodo di controllo dell’epidemia. No, non può essere un modello.

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