PUBBLICITÁ

La censura arriva dall’alto

Non c'è privacy e libertà nei social cinesi

Il popolarissimo social network si è sempre definito un’azienda privata e come tale soggetta alle regole del mercato. Ma non è così

Giulia Pompili

Un funzionario del governo di Pechino era a capo di alcune operazioni globali di TikTok, scrive il Financial Times. I social cinesi che cercano di penetrare nei mercati esteri, ma non sono come tutti gli altri. Al di là della propaganda anticinese di Trump, la censura continua il suo lavoro

PUBBLICITÁ

Un funzionario del governo di Pechino era a capo di alcune operazioni globali di TikTok.  Lo ha scoperto il Financial Times, che ha parlato con due diverse fonti e studiato il background di Cai Zheng, ex impiegato del ministero degli Esteri cinese che fino all’inizio di quest’anno lavorava nel team di TikTok che si occupa delle politiche dedicate ai contenuti. La notizia, che ieri il Financial Times ha messo in prima pagina, è la prima prova concreta della presenza del governo di Pechino dentro al popolarissimo social network, che invece si è sempre definito un’azienda privata e come tale soggetta alle regole del mercato. E corrobora la tesi ufficiale della Casa Bianca di Donald Trump, che accusa TikTok di essere una minaccia “per la sicurezza nazionale”, soprattutto per quanto riguarda il furto di dati. Scriveva ieri Ryan McMorrow sul Financial Times che questa notizia “rende meno attendibili le smentite da parte di ByteDance”, cioè la società che possiede TikTok, “sul fatto che il governo cinese non abbia alcun tipo di influenza sulle loro operazioni”. Cai Zheng è entrato a TikTok nel 2018, proprio nel momento in cui la versione cinese del social network, Douyin, veniva messa sotto osservazione dai burocrati cinesi perché i suoi contenuti erano troppo poco allineati all’ideologia. Per poter continuare le operazioni, il ceo di ByteDance, Zhang Yiming, allora fu costretto alle scuse formali, perché incapace di controllare del tutto i contenuti caricati sul social. Ma non è escluso che per controllare la comunicazione esterna, cioè la moderazione del social indirizzato al pubblico al di fuori dei confini cinesi, Pechino abbia voluto un suo funzionario.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Un funzionario del governo di Pechino era a capo di alcune operazioni globali di TikTok.  Lo ha scoperto il Financial Times, che ha parlato con due diverse fonti e studiato il background di Cai Zheng, ex impiegato del ministero degli Esteri cinese che fino all’inizio di quest’anno lavorava nel team di TikTok che si occupa delle politiche dedicate ai contenuti. La notizia, che ieri il Financial Times ha messo in prima pagina, è la prima prova concreta della presenza del governo di Pechino dentro al popolarissimo social network, che invece si è sempre definito un’azienda privata e come tale soggetta alle regole del mercato. E corrobora la tesi ufficiale della Casa Bianca di Donald Trump, che accusa TikTok di essere una minaccia “per la sicurezza nazionale”, soprattutto per quanto riguarda il furto di dati. Scriveva ieri Ryan McMorrow sul Financial Times che questa notizia “rende meno attendibili le smentite da parte di ByteDance”, cioè la società che possiede TikTok, “sul fatto che il governo cinese non abbia alcun tipo di influenza sulle loro operazioni”. Cai Zheng è entrato a TikTok nel 2018, proprio nel momento in cui la versione cinese del social network, Douyin, veniva messa sotto osservazione dai burocrati cinesi perché i suoi contenuti erano troppo poco allineati all’ideologia. Per poter continuare le operazioni, il ceo di ByteDance, Zhang Yiming, allora fu costretto alle scuse formali, perché incapace di controllare del tutto i contenuti caricati sul social. Ma non è escluso che per controllare la comunicazione esterna, cioè la moderazione del social indirizzato al pubblico al di fuori dei confini cinesi, Pechino abbia voluto un suo funzionario.


Il mese scorso l’Australian strategic policy Institute (Aspi), uno dei think tank più autorevoli e importanti quando si tratta di studio della Cina, ha pubblicato un report proprio su TikTok e WeChat, social network cinesi che già da tempo si stanno affacciando sul mercato globale. La competizione tra America e Cina sta rendendo anche il dibattito tecnologico polarizzato, e i toni del presidente americano Donald Trump contro la Cina non aiutano a capire dove finisce la propaganda e l’opportunità politica e dove inizia invece la reale minaccia alla sicurezza nazionale, o a quella degli utenti. Secondo gli autori dello studio dell’Aspi, Fergus Ryan, Audrey Fritz e Daria Impiombato, “per la maggior parte dei social network internazionali è vietato l’ingresso nel mercato della Repubblica popolare cinese, ma nel frattempo le società di social media cinesi si stanno espandendo all’estero e  si stanno costruendo un ampio pubblico globale. Alcuni di questi social network, tra cui WeChat e TikTok, pongono diverse sfide, che riguardano anche la libertà di espressione”. 
Al luglio del 2020 TikTok aveva circa settecento milioni di utenti, ed è il primo social così popolare ad aver preso molto seriamente la moderazione dei commenti. Moderazione che però spesso significa censura e controllo delle informazioni diffuse online. ByteDance, come la Tencent, la società che possiede la superapp WeChat, “sono soggette alle leggi sulla sicurezza, sull’intelligence, il controspionaggio e la cybersicurezza del governo cinese”. All’inizio, subito dopo il suo lancio globale, TikTok voleva essere il social network di condivisione video e immagini meno politicizzato del mondo, e un paio di anni fa Raj Mishra, capo del network in India, diceva a Bloomberg che la piattaforma voleva essere solo un luogo di “intrattenimento”. Ma i dati dicono l’esatto contrario. L’anno scorso, si legge nel report, cercando #Xinjiang sul social network comparivano soltanto due video di Vice. Ad agosto 2020 quei video erano saliti a 444, “e solo il 5,6 per cento di questi sono critici delle politiche del Partito comunista cinese, un numero stranamente basso considerato il dibattito sull’argomento”. 


Esattamente un anno fa il Guardian pubblicò un documento con le linee guida della censura politica di TikTok. Il social al tempo divideva i contenuti in “violazioni”, cioè i video che vanno eliminati del tutto, e quelli visibili ma con cautela, quindi non promossi dall’algoritmo. Tra le parole chiave da censurare c’erano tutte quelle che vanno contro la politica cinese (per esempio Falun Gong, Tiananmen) ma in generale tutte le proteste, comprese quelle in America (anche l’espressione “all cops are bastard”, per esempio, come rileva il report dell’Aspi). All’epoca la società ByteDance aveva detto al Guardian che le linee guida erano fatte per “minimizzare i conflitti” all’interno del social, ma il report dell’Aspi dimostra che c’è  molta politica, soprattutto oggi, sul social network che Trump vorrebbe bandire.  Solo che è politica pro-Pechino. La notizia pubblicata ieri dal Financial Times non fa che confermare la strategia dell’azienda.
 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ