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Il conflitto sulle montagne

Il pendolo del Karabakh

Micol Flammini

Nel Caucaso, Yerevan e Baku schierano i missili balistici. Perché Mosca non media più? La Turchia e la variante armena

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Roma. Durante un discorso alla nazione il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha detto ieri che il conflitto contro l’Azerbaigian per il Nagorno Karabakh andrà avanti perché “questa non è soltanto una guerra. Questa è una battaglia decisiva per le nostre vite”. Gli scontri iniziati a luglio e diventati sempre più intensi a fine settembre nell’enclave a maggioranza armena nel territorio azero si sono ora spostati nelle città, domenica è stata bombardata Ganja, la seconda per grandezza dell’Azerbaigian, i missili balistici sono arrivati nei centri abitati e da parte delle due nazioni del Caucaso meridionale è un continuo minacciare e attaccare. Non si assisteva a un’escalation del conflitto di queste dimensioni dal 2016, ma anche allora gli attacchi da tutte e due le parti erano durati quattro giorni e al quinto azeri e armeni erano tornati a negoziare. Questa situazione è chiamata il pendolo del Karabakh, quando il conflitto si alterna a periodi di negoziati. Ma come scrive Sergei Markedonov del Carnegie di Mosca, questa volta il pendolo sembra essersi bloccato e la situazione sembra pericolosamente immobilizzata dagli scontri armati tra le due nazioni. Qualcosa di diverso rispetto al 2016 c’è, ed è l’atteggiamento della Russia che in questi anni è sempre stata il motore diplomatico che, quando il pendolo oscillava verso il conflitto, riusciva subito a spostarlo verso i negoziati. La mediazione di Mosca è stata per anni il motore di questo pendolo, la Russia ha due basi militari in Armenia e le due nazioni sono legate anche da una serie di accordi bilaterali, ma questa volta, nella regolazione degli scontri sembra incapace di trovare una soluzione. L’Azerbaigian è forte del sostegno della Turchia, una variante nuova nel conflitto, che la Russia non era abituata a dover prendere in considerazione: era la sola nell’area a dover ponderare e indirizzare i negoziati. Ma non è certo la prima volta che russi e turchi si trovano a dover condividere lo stesso spazio, a volte lo fanno in maniera più bellicosa, a volte sotto forme più negoziali. Le due nazioni hanno imparato a scendere a compromessi, sanno come trattare l’una con l’altra, eppure nel Nagorno Karabakh sembrano non riuscirci. Le zone in cui Mosca e Ankara convivono non sono meno complicate del Caucaso meridionale, un compromesso lo hanno trovato in Libia, in Siria, e anche nel Kurdistan siriano sono riuscite a raggiungere un accordo. 

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Roma. Durante un discorso alla nazione il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha detto ieri che il conflitto contro l’Azerbaigian per il Nagorno Karabakh andrà avanti perché “questa non è soltanto una guerra. Questa è una battaglia decisiva per le nostre vite”. Gli scontri iniziati a luglio e diventati sempre più intensi a fine settembre nell’enclave a maggioranza armena nel territorio azero si sono ora spostati nelle città, domenica è stata bombardata Ganja, la seconda per grandezza dell’Azerbaigian, i missili balistici sono arrivati nei centri abitati e da parte delle due nazioni del Caucaso meridionale è un continuo minacciare e attaccare. Non si assisteva a un’escalation del conflitto di queste dimensioni dal 2016, ma anche allora gli attacchi da tutte e due le parti erano durati quattro giorni e al quinto azeri e armeni erano tornati a negoziare. Questa situazione è chiamata il pendolo del Karabakh, quando il conflitto si alterna a periodi di negoziati. Ma come scrive Sergei Markedonov del Carnegie di Mosca, questa volta il pendolo sembra essersi bloccato e la situazione sembra pericolosamente immobilizzata dagli scontri armati tra le due nazioni. Qualcosa di diverso rispetto al 2016 c’è, ed è l’atteggiamento della Russia che in questi anni è sempre stata il motore diplomatico che, quando il pendolo oscillava verso il conflitto, riusciva subito a spostarlo verso i negoziati. La mediazione di Mosca è stata per anni il motore di questo pendolo, la Russia ha due basi militari in Armenia e le due nazioni sono legate anche da una serie di accordi bilaterali, ma questa volta, nella regolazione degli scontri sembra incapace di trovare una soluzione. L’Azerbaigian è forte del sostegno della Turchia, una variante nuova nel conflitto, che la Russia non era abituata a dover prendere in considerazione: era la sola nell’area a dover ponderare e indirizzare i negoziati. Ma non è certo la prima volta che russi e turchi si trovano a dover condividere lo stesso spazio, a volte lo fanno in maniera più bellicosa, a volte sotto forme più negoziali. Le due nazioni hanno imparato a scendere a compromessi, sanno come trattare l’una con l’altra, eppure nel Nagorno Karabakh sembrano non riuscirci. Le zone in cui Mosca e Ankara convivono non sono meno complicate del Caucaso meridionale, un compromesso lo hanno trovato in Libia, in Siria, e anche nel Kurdistan siriano sono riuscite a raggiungere un accordo. 

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La guerra tra armeni e azeri è una guerra molto circoscritta a livello territoriale e si sta sviluppando in una zona che è stata per anni, e continua a esserlo, sotto la zona di influenza del Cremlino eppure, nonostante il Cremlino sia abituato a trattare con Erdogan, questa volta sembra incapace di far ripartire il pendolo con un negoziato russo-turco. La Russia in questi mesi è stata impegnata nel controllo della situazione in Bielorussia, dove il dittatore Aljaksandr Lukashenka si è insediato per un sesto mandato nonostante non ci siano prove di una sua vittoria alle elezioni del nove agosto scorso. Lui sostiene di aver preso l’80 per cento dei voti, ma le proteste vanno avanti da oltre cinquanta giorni e si fanno sempre più numerose. Lukashenka ha chiesto aiuto a Putin, che non ha mai avuto una particolare simpatia per il dittatore, ma è preoccupato di poter perdere la sua influenza a Minsk come è successo sei anni fa a Kiev. Impegnato nella soluzione bielorussa, che di fatto non si è risolta – Putin sta solo cercando di ottenere il massimo da un debolissimo Lukashenka – il Cremlino potrebbe aver sottostimato il conflitto nel Nagorno Karabakh e adesso sarebbe senza strategia. Eppure la risoluzione dei conflitti tra armeni e azeri è un esercizio che la Russia è abituata a fare da tempo, e anche l'impreparazione o la distrazione dovute alla situazione a Minsk non sembrano una motivazione convincente all’assenza di un negoziato russo-turco. Oltre alla presenza di Erdogan, ai mercenari arrivati dalla Siria che non piacciono affatto a Mosca, c’è però un’altra variante rispetto al 2016.

 

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L'Armenia ha un nuovo premier, arrivato nel 2018 dopo una rivoluzione gentile, pacifica, la Rivoluzione di velluto che aveva come obiettivo quello far dimettere l’ex presidente Serzh Sargsyan, capo di stato per dieci anni, fortemente legato a Mosca e accusato di corruzione. Pashinyan, che oggi è premier, allora era il leader delle proteste, non ha mai preso le distanze dal Cremlino, che non è mai intervenuto per fermare le manifestazioni, ma ha anche cercato di favorire una maggiore adesione di Yerevan alla sfera europea e transatlantica. Pashinyan, dopo la sua elezione, aveva anche detto di essere disposto a concludere in maniera definitiva la pace con l'Azerbaigian per il Nagorno Karabakh, aveva dichiarato di non essere uno del “clan del Karabakh” e di essere pronto a gesti di apertura. Ha cambiato idea e oggi vede quello scontro come “una battaglia per le nostre vite”. Mosca nel Caucaso ha perso un po’ della sua influenza, ma la Russia non sembra neppure accelerare i negoziati con Erdogan. A nessuno conviene che ci sia una guerra così lunga, ma la decisione di attendere prima di fare accordi con la Turchia potrebbe essere un messaggio a Pashinyan: dare una dimostrazione di forza al premier armeno per sottolineare la sua appartenenza all’area euroasiatica e non a quella euroatlantica.

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