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chi vuole la guerra?

Nel Caucaso Putin non è più l’uomo dell’equilibrio. Colpa di Erdogan

Nel Nagorno Karabakh la Russia è passata da arbitro a vittima dell'iperattivismo turco

Luca Gambardella

"Prima Mosca era come un genitore attento che aveva a che fare con due bambini litigiosi. Ora invece è in difficoltà"

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Roma. Due anni fa in Armenia la rivoluzione di velluto sembrava avesse aperto scenari nuovi per il Nagorno-Karabakh, la regione caucasica che dagli anni Novanta è contesa all’Azerbaijan. “Abbiamo un autentico desiderio di risolvere il conflitto in modo pacifico”, aveva promesso Nikol Pashinyan, premier progressista e leader delle proteste che avevano rovesciato il precedente sistema di governo, corrotto e autoritario. Oggi pare che le cose siano andate diversamente. A distanza di oltre 30 anni, il Nagorno-Karabakh, sia in Armenia sia in Azerbaijan, resta una priorità. Nell’enclave di lingua armena, inglobata nel territorio azero, da cinque giorni è ricominciato il lancio di missili e i droni hanno ucciso un numero imprecisato di persone. Che il clima lungo il confine non fosse cambiato si era capito già lo scorso luglio, quando il cessate il fuoco cominciava a essere violato. Allora, molti giornali erano stati incuriositi dal caso della moglie del premier armeno, Anna Hakobyan, fotografata nel Nagorno-Karabakh con mimetica e kalashnikov mentre partecipava a un’esercitazione militare di sole donne. “Donne per la pace”, avevano chiamato l’addestramento – non senza una certa ironia.

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Roma. Due anni fa in Armenia la rivoluzione di velluto sembrava avesse aperto scenari nuovi per il Nagorno-Karabakh, la regione caucasica che dagli anni Novanta è contesa all’Azerbaijan. “Abbiamo un autentico desiderio di risolvere il conflitto in modo pacifico”, aveva promesso Nikol Pashinyan, premier progressista e leader delle proteste che avevano rovesciato il precedente sistema di governo, corrotto e autoritario. Oggi pare che le cose siano andate diversamente. A distanza di oltre 30 anni, il Nagorno-Karabakh, sia in Armenia sia in Azerbaijan, resta una priorità. Nell’enclave di lingua armena, inglobata nel territorio azero, da cinque giorni è ricominciato il lancio di missili e i droni hanno ucciso un numero imprecisato di persone. Che il clima lungo il confine non fosse cambiato si era capito già lo scorso luglio, quando il cessate il fuoco cominciava a essere violato. Allora, molti giornali erano stati incuriositi dal caso della moglie del premier armeno, Anna Hakobyan, fotografata nel Nagorno-Karabakh con mimetica e kalashnikov mentre partecipava a un’esercitazione militare di sole donne. “Donne per la pace”, avevano chiamato l’addestramento – non senza una certa ironia.

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Finora il dialogo fra Yeravan e Baku era stato reso possibile dalla mediazione di Russia e Turchia. Ora invece uno degli arbitri della partita – il presidente turco Recep Tayyip Erdogan – ha fatto saltare il tavolo dei negoziati. Thomas de Waal, senior fellow di Carnegie Europe, spiega al Foglio che l’equilibrio geopolitico è stato messo in discussione proprio dalla mossa di Ankara, che ha deciso di sostenere l’intervento militare dell’Azerbaijan. Erdogan ha messo in pratica una tattica già usata in altri scenari, dalla Siria alla Libia fino al Mediterraneo orientale: infilarsi tra le pieghe di una disputa o di una crisi già in corso o latente per aumentare il suo peso negoziale. Ora Mosca è in difficoltà: “Nel Nagorno Karabakh la Russia si è sempre presentata come il mediatore, o meglio, ‘l’equilibratore’ fra Armenia e Azerbaijan. Come un genitore attento che ha a che fare con due bambini litigiosi”, dice de Waal. Negli anni i russi si sono ritagliati questa posizione di terzietà mantenendo relazioni diplomatiche sia con Baku sia con Yerevan e vendendo armi a entrambi. Mosca può contare pure su due basi militari in Armenia, con la quale ha anche siglato un trattato di cooperazione nel settore della Difesa che prevede una clausola di mutuo intervento in caso di attacco da parte di un paese terzo. “In generale la strategia di Mosca finora è stata: ‘Non vogliamo imporre niente a nessuno, altrimenti danneggeremmo le nostre relazioni con entrambe le parti’”, chiarisce de Waal. “Ora però quel ruolo è compromesso perché la Russia manca delle forze militari necessarie sul terreno in Azerbaijan e nel Karabakh. Le possibilità per Mosca di fare leva su Baku sarebbero limitate se gli azeri avessero intenzione di combattere ancora”.

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Lo scenario si è complicato nelle ultime ore. Ieri, l’ambasciatore armeno in Israele è stato richiamato per consultazioni perché molti aerei cargo azeri negli ultimi giorni hanno fatto scalo alla base di Ovda, a sud di Israele. I legami fra i due paesi sono noti: l’esercito di Baku usa droni di fabbricazione turca ma anche israeliana e il 60 per cento delle importazioni di materiale bellico viene proprio da Israele. In attesa di decifrare anche il ruolo dell’Iran, che sta già aprendo il suo spazio aereo ai russi per rifornire le basi in Armenia, la regionalizzazione del conflitto rende ancora più difficile la strada per riprendere i negoziati. Ina Parvanova, portavoce dell’Osce, dice al Foglio di essere molto preoccupata. “Stiamo cercando di riportare le parti a negoziare in modo costruttivo e il più presto possibile in seno al Gruppo di Minsk. Abbiamo notizie di molte vittime, anche civili, lungo le linee di contatto dei due eserciti. Chiediamo un cessate il fuoco immediato”. Anche l’Italia fa parte del Gruppo di Minsk, insieme a Stati Uniti e Francia, ma finora è rimasta defilata, così come è accaduto nelle altre principali crisi della regione. Agli occhi delle cancellerie occidentali, quella del Nagorno-Karabakh è sempre stata una guerra sufficientemente lontana da consentire posizioni accomodanti. Stavolta le cose sono cambiate: ancora una volta, Erdogan ha deciso di alzare la posta in gioco.

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